Nel linguaggio quotidiano è ormai entrato l’aggettivo “digitale” per descrivere professioni, strumenti e intere filiere. Ma con l’introduzione diffusa dell’intelligenza artificiale – e in particolare di quella generativa – la questione si complica: non siamo più semplicemente di fronte a un processo di digitalizzazione, ma a una trasformazione strutturale delle mansioni, delle competenze richieste e perfino del rapporto identitario con il proprio lavoro.
Non si tratta solo di automatizzare, ma di aumentare. Di affiancare alle capacità umane strumenti in grado di generare, sintetizzare, prevedere. In teoria, un’opportunità. In pratica, una frattura: tra chi si adatta e chi resta indietro, tra chi delega e chi viene sostituito.
Contesto tecnologico e normativo
Già nel lontano 2023 un famoso studio McKinsey prevedeva che entro il 2030 oltre il 30 per cento delle attività lavorative sarebbero state automatizzate in settori come finanza, customer care, amministrazione e produzione. La previsione si sta rivelando piuttosto azzeccata. Anche se più che eliminare posti di lavoro, l’AI sta cambiando la loro forma interna: riduce il tempo dedicato a compiti ripetitivi e lascia spazio a competenze più trasversali e decisionali.
L’OCSE parla sempre più spesso di “AI literacy” o alfabetizzazione all’intelligenza artificiale in risposta all’impatto crescente che l’IA ha sulla società, sull’economia e sul sistema educativo globale. Le skill digitali di base – fino a ieri considerate sufficienti – rischiano di diventare rapidamente obsolete. Al loro posto emergono competenze ibride, come:
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