Principio di proporzionalità, per le sanzioni in Italia proprio non ci siamo
di Alberto Calzolari
Una sentenza davvero importante quella con cui la Corte EDU, la scorsa settimana, ha condannato la Serbia per la violazione dell’articolo 1P1 della CEDU (che protegge il libero godimento dei propri beni). Importante perché ha riesaminato gli aspetti che devono essere valutati al fine di giudicare la legittimità delle sanzioni irrogate in una sede non formalmente penale, ma che posseggono natura sostanzialmente penale, dunque la legittimità di fattispecie sanzionatorie che ricomprendono anche le sanzioni tributarie previste dal nostro ordinamento.
In Corte EDU 24.6.2025, Causa Aksungur et alii v. Serbia, i giudici di Strasburgo hanno riunito i ricorsi di cinque cittadini (di nazionalità turca o tedesca) che lamentavano l’illegittima confisca delle somme di denaro al seguito, non dichiarate al passaggio di confine con la Serbia. I casi esaminati presentano i medesimi tratti essenziali, avendo a oggetto le sanzioni conseguenti all’inadempimento della dichiarazione doganale, imposta dalla legge serba a tutti coloro che valicano il confine con una somma uguale o superiore a 10mila euro. La normativa serba non vieta il trasporto di somme superiori a detto limite, ma impone uno specifico obbligo dichiarativo, da produrre prima dell’eventuale controllo alla frontiera. I cinque cittadini sanzionati non hanno importato né esportato valuta dalla Serbia, essendosi limitati ad attraversare il territorio serbo, per raggiungere altri Stati per finalità turistiche o di lavoro. Tuttavia, l’omesso adempimento doganale è costato loro l’irrogazione di una sanzione amministrativa e la confisca degli importi eccedenti la soglia di 10mila euro. Nello stesso giorno della violazione i cittadini sono stati incriminati e quindi chiamati a difendersi davanti alla “Corte delle Contravvenzioni” territorialmente competente, che successivamente aveva irrogato le sanzioni amministrative e commutato i sequestri alla frontiera in confische, e in uno solo dei cinque casi previa riduzione dell’importo sequestrato. La decisione di primo grado è stata da tutti impugnata davanti all’Alta Corte di Belgrado e poi davanti alla Corte costituzionale serba, Corti che hanno respinto integralmente i ricorsi in appello. All’esito delle pronunce di rigetto della Corte costituzionale, i cinque ricorrenti hanno contestato davanti alla Corte EDU la violazione dell’articolo 1P1, in punto di base legale e di proporzionalità delle sanzioni subite.
La Corte EDU ha osservato che le sanzioni amministrative irrogate dallo Stato serbo rispondono al requisito della riserva di legge e al criterio della proporzionalità, in quanto la norma serba stabilisce chiaramente l’intervallo edittale della sanzione per omessa dichiarazione doganale del denaro al seguito, una sanzione comunque “mite” (tra il minimo di 5mila e il massimo di 150mila dinari serbi, corrispondenti a un intervallo tra circa 40 e 1.300 euro) e rapportata a una serie di parametri opportunamente valutati e applicati dalle Corti di merito serbe. Nel caso dei ricorrenti, le sanzioni erano state irrogate per importi compresi tra 50 e 550 euro.
Completamente diverso l’esito dell’esame condotto dai giudici di Strasburgo sulle somme prelevate a titolo di confisca. Al Sig. Aksungur era stata confiscata la somma di 53mila euro (rispetto agli iniziali 93mila euro sequestrati al confine), mentre agli altri quattro ricorrenti era stata confermata la confisca dell’intero importo sequestrato dalla polizia doganale, somme corrispondenti rispettivamente a circa 20.000, 24.800, 14.400 e 25mila euro (i contanti eccedenti la soglia di 10mila euro). La Corte EDU ha constatato la natura deterrente e afflittiva della confisca (dunque, la sua natura sostanzialmente penale), non potendo accogliere la tesi del Governo sul carattere restitutorio o compensativo del provvedimento ablatorio, visto che i ricorrenti non avevano danneggiato in maniera sostanziale lo Stato, non avendo commesso alcuna infrazione relativa agli equilibri valutari serbi o a fattispecie di reato connesse al contrabbando, al riciclaggio, al traffico di stupefacenti o di qualsiasi altra natura.
Quanto al requisito della riserva sostanziale di legge della confisca, la Corte EDU ha rammentato i parametri di accessibilità, chiarezza e prevedibilità che devono possedere le norme che comprimono il diritto tutelato dall’articolo 1P1 CEDU, e proprio in riferimento alla prevedibilità del provvedimento ablatorio, conseguente all’omessa dichiarazione doganale, i giudici di Strasburgo hanno rilevato l’inadeguatezza della legge serba. L’articolo 64 del “Foreign Currency Transaction Act” dispone la confisca di ogni bene non dichiarato, ma il suo secondo comma dispone che la confisca deve essere solo parziale se il motivo della violazione oppure altre circostanze rendono ingiustificata la confisca integrale dei valori omessi in dichiarazione. La vaghezza e l’indeterminatezza delle condizioni che consentono di ridurre l’entità della confisca rappresentano una base legale insoddisfacente, anche perché la giurisprudenza serba non ha saputo porre un rimedio a tale lacuna normativa. Infatti, anche la giurisprudenza della Corte costituzionale serba, esaminata ancora successivamente alla presentazione dei ricorsi in esame, non è mai stata in grado di raggiungere approdi coerenti, né relativamente alle condizioni che consentono di mitigare la confisca né relativamente alla giustificazione dell’entità dell’eventuale riduzione.
Queste osservazioni sono risultate decisive anche per l’esame del rispetto del principio di proporzionalità richiesto dalla Corte EDU, con particolare riferimento al criterio dell’adeguatezza e, dunque, dell’equilibrio tra il beneficio assicurato allo Stato dal provvedimento ablatorio e il sacrificio patito dal singolo cittadino. I giudici di Strasburgo hanno osservato che le Corti serbe di ogni grado non hanno condotto alcun esame relativamente a tale criterio, trincerandosi dietro al carattere obbligatorio della confisca disposta dalla legge nazionale a fronte dell’omessa dichiarazione. Peraltro, la Corte EDU ha evidenziato come nel caso del primo ricorrente fosse stata disposta una riduzione di 40mila della somma sequestrata, senza alcuna spiegazione del passaggio aritmetico dagli iniziali 93mila ai definitivi 53mila euro confiscati, mentre nel caso degli altri quattro ricorrenti i giudici serbi hanno respinto ogni contestazione riguardo alla necessità e all’importo della confisca. Eppure, gli argomenti sollevati dai ricorrenti erano praticamente coincidenti in tutti i cinque casi:
i) la violazione è stata determinata da negligenza (la mancata conoscenza dell’adempimento dichiarativo) e non dall’intenzione di sottrarsi al controllo doganale;
ii) il comportamento collaborativo nel corso dell’ispezione doganale (il denaro non era stato nascosto, ma anzi consegnato spontaneamente ai verificatori);
iii) l’origine legale del denaro trasportato, dimostrata attraverso contabili bancarie, documentazione di compravendite avvenute all’estero, disposizioni del datore di lavoro estero;
iv) l’assenza di qualsiasi indizio di connessione con attività criminose;
v) le condizioni sociali ed economiche dei ricorrenti, per i quali gli importi sequestrati erano finanziariamente rilevanti.
Secondo la Corte EDU gli elementi enucleati avrebbero dovuto essere presi in considerazione nel corso del controllo giurisdizionale, ovvero avrebbero dovuto condurre a una motivata giustificazione della riduzione della confisca nel caso del primo ricorrente; viceversa, le motivazioni delle sentenze delle Corti serbe non hanno saputo porre rimedio alcuno alla carenza della base legale delle confische e al mancato rispetto del principio di proporzionalità. Le “altre circostanze”, di cui al citato articolo 64 comma 2 della disciplina valutaria serba, conferiscono alle autorità serbe un ampio potere discrezionale senza specificare i criteri entro i quali ridurre l’entità della confisca, senza nemmeno indicare a quali soggetti spetta l’onere di provare la sussistenza di tali vaghe circostanze. A fronte di alcun danno tangibile prodotto, in concreto, dai ricorrenti rispetto alle ragioni di pubblica utilità, e a fronte del rilevante sacrificio economico patito da ogni singolo ricorrente, la Corte EDU ha rilevato il carattere arbitrario e l’illegittimità di tutti e cinque i provvedimenti di confisca e dunque la violazione dell’articolo 1P1 della Convenzione. Ne è conseguita la condanna della Serbia, comprensiva della riparazione del danno materiale e quindi della restituzione integrale delle somme confiscate ai ricorrenti, oltre al rimborso delle spese processuali sostenute dai medesimi (nei procedimenti davanti alle Corti serbe e alla Corte EDU).
L’occasione di “ripasso” sui requisiti di legittimità delle sanzioni, offerta dalla sentenza della Corte EDU, è utile per ribadire la situazione di assoluta incompatibilità dell’ordinamento sanzionatorio tributario italiano rispetto alla CEDU. Rammentato che la normativa che scaturisce dal sistema costruito con i decreti delegati del 1997 (n. 471 e 472) ha disegnato un sistema di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale, e che tale configurazione impone l’integrale recepimento della giurisprudenza della Corte EDU sulla legalità della pena (ex articolo 7) e sulla riserva sostanziale di legge e sulla proporzionalità (ex articolo 1P1), per chi osserva la normativa nazionale il quadro è allarmante. Anche perché i profili di contrasto con la CEDU sono sensibilmente aumentati dopo la riforma attuata con il Dlgs n. 87/2024. Per ragioni di spazio mi soffermerò sulle novità introdotte sotto il profilo della proporzionalità delle sanzioni. Tuttavia, occorre almeno accennare al fatto che la negazione del favor rei (è stata disapplicata la lex mitior sulle violazioni commesse prima del 1.9.2024) e l’estensione dell’ambito di irrogazione delle sanzioni in maniera oggettiva costituiscono patenti violazioni dell’articolo 7 CEDU (la responsabilità oggettiva per le sanzioni tributarie è stata estesa agli enti privi di personalità giuridica, pur permanendo l’assenza dei meccanismi di temperamento previsti dal Dlgs n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti). L’articolo 7 CEDU attribuisce garanzie che non sono in alcun modo comprimibili da parte dei singoli Stati: il diritto alla legalità della pena è uno dei pochi diritti assoluti scolpiti nella Convenzione, non assoggettabile ad alcun bilanciamento con altri diritti dei singoli o con qualsivoglia valore statuale.
Sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità, sono due le principali incongruenze del ridisegnato impianto sanzionatorio rispetto ai parametri fissati dalla Corte EDU in riferimento all’articolo 1P1. Anzitutto, il legislatore della riforma ha eliminato gli intervalli edittali che, in seno al Dlgs n. 471, consentivano all’Amministrazione finanziaria e al giudice di ponderare i criteri di determinazione della sanzione (ex articolo 7 del Dlgs n. 472) sulla specificità della singola violazione commessa da un dato soggetto. Considerando che è rimasto inalterato il meccanismo di applicazione della sanzione, attraverso la moltiplicazione di un’aliquota percentuale al solo valore assoluto dell’imposta evasa (o non dichiarata), ne risulta concretamente svuotata ogni formale ambizione di rispettare il principio di proporzionalità. È certamente comprensibile l’apprezzamento rivolto da molti osservatori alla riduzione dell’aliquota percentuale per un considerevole spettro di violazioni tributarie (anche se non sempre in maniera significativa, rispetto al valore minimo del precedente intervallo edittale), ma seppur a fronte di tale mitigazione sanzionatoria, non è giustificabile affermare che la riforma ha rispettato il principio di proporzionalità. La sanzione edittale in misura percentuale fissa impedisce di apprezzare anche la novella di cui al comma 3-bis dell’articolo 3 del Dlgs 472, ove è stato finalmente statuito che “la disciplina delle violazioni e sanzioni tributarie è improntata ai principi di proporzionalità e di offensività”. Se la base di computo della sanzione è rappresentata solo dall’imposta evasa, e se l’aliquota percentuale è diventata fissa, non si vede proprio quale margine di valutazione rimanga, in capo all’Af o al giudice, per dare attuazione al principio di proporzionalità secondo le attenuanti e le aggravanti specificate nel comma 1 dell’articolo 7 del Dlgs 472, che è stato parimenti innovato recependo, nell’abbrivio, il citato comma 3-bis dell’articolo 3.
Si rammenta che i criteri fissati dal primo comma dell’articolo 7 sono la gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, l’opera da questi svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, la sua personalità e le sue condizioni economiche e sociali. Si può convenire sul fatto che tali criteri siano conformi a quanto richiesto dal principio di proporzionalità, e dunque anche per l’ordinamento italiano la sanzione tributaria non deve essere commisurata esclusivamente all’entità dell’imposta evasa. Ma il legislatore delegato non è andato oltre al recepimento meramente formale del principio, poiché, si ribadisce, se la percentuale da applicare è fissa ed è applicata di default alla sola imposta, i “buoni propositi” di cui al citato primo comma sono destinati a restare lettera morta (anche, come vedremo a breve, per la possibile ma tardiva variazione in mitius, rispetto a quella in pejus). Non v’è chi non veda l’inconciliabile antitesi tra, da un lato, la valutazione ponderata dei diversi fattori che conducono a una sanzione proporzionata, e, dall’altro lato, l’automatica esecuzione di una semplice moltiplicazione predefinita.
Nel commentare le novità della riforma occorre evitare di incorrere in un banale errore di logica giuridica: la determinazione della sanzione deve essere proporzionata fin dalla sua genesi, non deve essere corretta ex post sulla base di valutazioni “nuove”, assenti dal ragionamento di chi è chiamato a fissare la misura della pena rispetto ai parametri caratterizzanti ogni evento illecito. Il soggetto istituzionalmente deputato a irrogare la sanzione deve calibrarla in modo tale che sia coerente con il principio di proporzionalità ab origine. Tale considerazione ci conduce alla seconda delle due principali incongruenze della riforma rispetto al principio di proporzionalità.
Di nuovo a livello formale, teorico, si sostiene che la proporzionalità della sanzione sarebbe infine salvaguardata dal novellato comma 4 del medesimo articolo 7. Tale considerazione è tuttavia fallace sia per quanto illustrato sulla proporzionalità ab origine, sia a causa dell’eccessiva vaghezza della formula “se concorrono circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra violazione commessa e sanzione applicabile, questa è ridotta fino a un quarto della misura prevista”. È agevole osservare che la norma non chiarisce di quali circostanze si tratta. Guarda caso, il secondo periodo del medesimo comma è più preciso (oltre a prevedere una variazione in pejus maggiore rispetto a quella mitigatrice), laddove specifica che se concorrono circostanze di particolare gravità della violazione oppure ricorrono altre circostanze valutate ai sensi del comma 1 (del medesimo articolo 7), la sanzione può essere aumentata fino alla metà. Si deve dedurre l’illegittimità della formulazione della prima parte della novella, poiché, a parte l’indeterminatezza, sottende un principio eversivo, secondo cui solo se l’incongruenza è manifestamente eclatante si deve fissare una mitigazione della sanzione, per ricondurla al rispetto del principio di proporzionalità. Dunque, il principio di proporzionalità svilito, da fulcro della determinazione della sanzione, a mero accessorio per tamponare ex post il fallimento delle sanzioni determinate in via automatica.
Eppure, l’insegnamento della Corte EDU sulla proporzionalità delle sanzioni è stato costante e ha dato luogo a una giurisprudenza consolidata. Anche nella sentenza commentata nel presente scritto, la Corte evidenzia che le sanzioni amministrative sono legittime poiché fissate all’interno di un intervallo edittale e poiché sono chiari i criteri di scelta dell’aliquota sanzionatoria adeguata, in modo che risulti una sanzione proporzionata e prevedibile. Viceversa, la Corte ha dichiarato l’illegittimità della confisca fissata al 100 per cento (dunque con aliquota unica) dell’importo non dichiarato, e integrata da criteri incerti di riduzione (le “altre circostanze” di cui alla norma serba) dell’importo da confiscare.
Lascia veramente perplessi la scelta compiuta dal legislatore delegato per la riforma, nell’aver definito un meccanismo sanzionatorio talmente eccentrico rispetto ai modelli consolidati, rispettosi del principio di proporzionalità. Non mancavano davvero gli esempi cui ispirarsi: dal sistema di fissazione delle sanzioni amministrative (da reato) per quote, di cui al Dlgs 231/2001, alle nuovamente riformate sanzioni doganali, fermo restando che il riordino delle sanzioni penaltributarie (contenuto nel medesimo Dlgs 87/2024 che ha riformato le sanzioni amministrative tributarie) non ha intaccato il procedimento della valutazione della pena in un definito intervallo edittale. Rimane, infine, l’insegnamento cardinale del codice penale: sarebbe stato doveroso guardare ai fondamentali articoli 132, 133 e 133-bis, per avere migliore contezza del significato del principio di proporzionalità della sanzione. Così, si sarebbe appalesato che nella determinazione della multa o dell’ammenda (ex articolo 133-bis) assumono grande rilievo le condizioni economiche e patrimoniali del reo, talché il giudice può aumentare l’importo sino al triplo o diminuirlo sino a un terzo quando ritiene che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa, proprio a causa della situazione finanziaria del reo. Si noti peraltro la simmetria delle variazioni, viceversa non rispettata nella davvero sfortunata formulazione del novellato comma 4 dell’articolo 7 del Dlgs 472/1997.