Presunzione di distribuzione nelle società a ristretta base: orientamenti giurisprudenziali sempre sulle montagne russe
di Marco Cramarossa
La presunzione elaborata dalla giurisprudenza, secondo cui gli utili extracontabili accertati a carico di una società a ristretta base societaria sono da considerarsi automaticamente distribuiti ai soci, costituisce un approccio ormai consolidato che finisce, tuttavia, per ridurre l'autonomia fiscale propria delle società di capitali, trasferendo in capo ai soci determinate vicende fiscali riguardanti il soggetto partecipato.
Occorre ricordare, innanzi tutto, che non esiste nel diritto positivo una definizione di società a ristretta base societaria o familiare in senso lato, tanto dal punto di vista civilistico quanto da quello tributario. Si tratta di una artificiale categoria giuridico tributaria elaborata dalla giurisprudenza di legittimità attraverso l’impiego di paralogistici labirinti inferenziali che, basandosi su elementi di comune esperienza che rappresentano il fatto noto ai sensi dell’articolo 2727 c.c., come la «complicità che normalmente lega un gruppo ristretto di soci» e il «vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci», di fatto fanno “precipitare” la presunzione da semplice a legale relativa, con, peraltro, spazi di prova contraria davvero limitati.
La prova principale, secondo la Cassazione, che il socio può fornire è, in realtà, una prova “negativa”, consistente nella dimostrazione che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, quanto piuttosto accantonati dalla società o da essa reinvestiti. Una prova, inutile dire, assolutamente diabolica in tutti i casi in cui nulla c’è da dimostrare.
Nel tempo sono gemmate alcune “aperture” probatorie, che consentirebbero di superare la presunzione allorquando si dimostri di non aver mai avuto poteri di controllo o di effettiva gestione in ambito societario (Cass. 23247/2018), nonché di essere stato un socio e amministratore mero prestanome di altro soggetto interponente (Cass. n. 28048/2022). Allo stesso modo, il socio potrebbe documentare che i rapporti con il management della società non erano tali da rendere possibile la conoscenza dell’esistenza di somme non documentate nella contabilità aziendale e, quindi, della successiva ripartizione delle stesse.
Ampliamento probatorio recentemente confermato dalla possibilità di una rigorosa dimostrazione basata sul fatto che il socio non fosse nelle condizioni di esercitare i propri diritti sociali (i.e. il potere di accesso a documenti e libri sociali), ovvero l’assenza di quella consultazione documentale che rende legittima la circostanza secondo cui il soggetto poteva non conoscere l’esistenza degli asseriti utili in nero (Cass. n. 2464/2025). Un principio inaugurato dall’orientamento che ha valorizzato le difficoltà del socio non più tale al momento della contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, anche in considerazione della irragionevolezza del termine di sessanta giorni dalla notifica dell’atto impositivo allorquando lo stesso non abbia più un diritto giuridicamente tutelato ad accedere ai documenti sociali (Cass. n. 4239/2022).
Altra tematica collaterale alla presunzione in parola, oggetto di un curvilineo orientamento da parte dei giudici di vertice, è il rapporto tra il percorso giudiziale dell’atto presupposto emesso a carico della società, indispensabile antecedente logico-giuridico dell’accertamento emesso nei confronti dei soci, e quello notificato appunto a questi ultimi. Di recente, la Suprema Corte (ordinanza n. 6001/2025) ha avuto modo di ribadire che il socio può contestare nel merito il maggiore reddito anche se il ricorso avverso l’accertamento emesso nei confronti della società è stato dichiarato inammissibile. Un principio che si coniuga con l’orientamento (Cass. n. 2807/2023) secondo il quale l’annullamento dell’atto emesso a carico della società di capitali a ristretta base partecipativa, con sentenza passata in giudicato per vizi attinenti al merito della pretesa tributaria, avendo carattere pregiudicante, determina l’illegittimità dell'avviso di accertamento notificato al singolo socio, fermo restando che tale carattere pregiudicante non si rinviene nelle ipotesi di annullamento per vizi del procedimento, che dà luogo a un giudicato formale e non anche sostanziale.
Stesso diritto, ovvero la possibilità di contestare nel proprio ricorso sia i fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria dell’accertamento presupposto sia il quantum della rettifica (i.e. le presunte riprese fiscali accertate alla società), spetta al socio, da un lato (Cass. n. 21813/2022), ove l’accertamento societario presupposto non possa considerarsi definitivo e, dall’altro, nell’ipotesi in cui lo stesso non abbia ricevuto l’atto di accertamento emesso a carico dell’ente partecipato, non potendosi a lui opporre gli esiti di un processo al quale non ha preso parte e senza che rilevi l’eventuale giudicato formatosi in relazione all’atto presupposto. Ugualmente rilevante è il principio che ha statuito la riduzione proporzionale del maggior reddito imputato ai soci in caso di riduzione dell’utile extrabilancio dell’ente rispetto a quello accertato in via presuntiva dall'Amministrazione finanziaria, non rilevando peraltro l’eventuale definitività del giudizio nei riguardi degli stessi (Cass. n. 25267/2024).
Tuttavia, in termini processuali, essendo unico l’atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, ne consegue che, non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario, il processo relativo al maggior reddito accertato in capo al socio deve essere sospeso ai sensi dell’articolo 295 c.p.c., applicabile nel giudizio tributario in forza del generale richiamo dell’articolo 1 DLgs. n. 546/1992. Un principio che però mette all’angolo il diritto di difesa del socio e l’indispensabile contraddittorio processuale, lasciandolo sostanzialmente esposto all’esito della vicenda giudiziaria della società.