Polizze catastrofali: gli emendamenti al decreto-legge non sciolgono i nodi, ma aprono nuove problematiche
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Il dibattito sull’obbligo assicurativo contro i rischi catastrofali per le imprese, già oggetto di diversi approfondimenti su queste colonne, si arricchisce di un nuovo capitolo. L’approvazione degli emendamenti al disegno di legge di conversione del decreto-legge 31 marzo 2025, n. 39, ha introdotto una serie di modifiche che, pur muovendosi nella direzione di un affinamento della disciplina, sembrano più allargare il campo dei problemi che risolverli.
Il primo punto che emerge, dalle variazioni approvate, riguarda l’esclusione dall’indennizzo, e da ogni altra forma di supporto pubblico, per gli immobili realizzati in assenza di titolo edilizio. L’emendamento interviene sull’articolo 1, comma 106, della legge 213/2023, precisando che l’assicuratore è tenuto a prestare copertura soltanto per immobili costruiti o ampliati sulla base di un valido titolo abilitativo, ovvero ultimati in epoca in cui tale titolo non era richiesto. Risultano inoltre assicurabili gli immobili oggetto di sanatoria o per i quali sia in corso un procedimento di regolarizzazione urbanistica. Per tutti gli altri, la norma prevede non solo l’esclusione dall’assicurazione obbligatoria, ma anche l’inammissibilità a qualsiasi indennizzo, contributo, sovvenzione o agevolazione pubblica, anche in caso di eventi catastrofali. La disposizione, pur comprensibile sotto il profilo dell’ordine pubblico urbanistico, introduce una cesura netta e potenzialmente problematica. Si consolida così un principio già affiorato nelle FAQ ministeriali: il vincolo assicurativo non solo tutela il patrimonio produttivo, ma seleziona anche, per esclusione, chi può accedere al sostegno pubblico. In questo caso, la funzione protettiva della norma si fonde con una logica sanzionatoria verso gli immobili abusivi, con effetti di non poco rilievo nelle aree del Paese in cui la regolarità edilizia del patrimonio produttivo risulta spesso storicamente compromessa. Più che un meccanismo di razionalizzazione del rischio, la norma rischia di diventare un ulteriore strumento di penalizzazione indiretta, destinato a colpire proprio le imprese più vulnerabili.
Tra le novità spicca, tra l’altro, la precisazione del criterio di determinazione del valore da assicurare: il riferimento non sarà più generico, ma dovrà essere calcolato sulla base del valore di ricostruzione a nuovo per gli immobili, del costo di rimpiazzo per i beni mobili e di quello di ripristino per i terreni. Una scelta tecnica che però incide in modo rilevante sul profilo economico dell’obbligo, ampliando la base di calcolo dei premi e aumentando, di fatto, l’onere a carico delle imprese, in particolare di quelle di minori dimensioni.
Ma è su un altro punto, già ampiamente discusso in precedenti interventi, che si concentra una delle scelte più controverse: la regolamentazione della posizione dell’imprenditore che si trovi ad assicurare beni non di proprietà, ma utilizzati nella propria attività. Gli emendamenti intervengono in modo apparentemente chiarificatore, stabilendo che l’indennizzo spetta al proprietario del bene assicurato, mentre l’imprenditore utilizzatore ha diritto a ricevere, qualora il proprietario ripristini la funzionalità del bene, fino al 40 per cento dell’importo indennizzato, a titolo di lucro cessante. Inoltre, è riconosciuto un privilegio legale per il rimborso dei premi e delle spese contrattuali.
Eppure, l’irrazionalità della previsione resta intatta. Si continua a pretendere che l’impresa stipuli e paghi una polizza per un bene che non le appartiene, con la consapevolezza che l’indennizzo sarà corrisposto ad un terzo soggetto, il proprietario, sul quale grava un generico obbligo di utilizzare quelle somme per il ripristino. Ma se l’importo risarcito fosse insufficiente? Se il ripristino, pur eseguito, non fosse funzionale a garantire all’impresa il ritorno alle condizioni produttive e reddituali precedenti? Quanto spazio si sta aprendo, con queste disposizioni, a un potenziale contenzioso tra imprese conduttrici e locatori, obbligati a “collaborare” in una dinamica che nasce da un’imposizione unilaterale, e non da una contrattazione volontaria?
Invece di costruire un meccanismo pragmatico e funzionale, magari centrato su obblighi assicurativi riferiti al rischio effettivamente sopportato da ciascuna parte, si è preferito insistere su una struttura che scarica l’onere sull’impresa senza garantirle né il controllo pieno sul bene né la certezza di una tutela efficace. E ciò rischia di alimentare nuove tensioni contrattuali e giudiziarie, con effetti distorsivi che vanificano l’obiettivo dichiarato di rafforzare la resilienza del sistema produttivo.
La sensazione è che si stia edificando un sistema eccessivamente rigido, che invece di tutelare il patrimonio economico del Paese ne appesantisce la gestione e le responsabilità. Il principio di trasferire il rischio al mercato assicurativo è condivisibile; ma l’attuazione normativa continua a oscillare tra il formalismo e l’inconsistenza. E in questa oscillazione si rischia di sacrificare, ancora una volta, la chiarezza, la semplicità e la certezza del diritto.