Pianeta terra chiama, Patagonia risponde: “Nothing we do is sustainable”
di Andrea Tordini
Immagina di aprire il report di sostenibilità di un grande brand globale e trovare, in prima pagina: “Nothing we do is sustainable”, non è la confessione di un detrattore, è lo slogan scelto dall’azienda stessa. È così che Patagonia ha deciso di presentare il suo Work in Progress Report 2025, un documento che non nasconde i numeri scomodi e non traveste i problemi in successi.
In un mondo di report di sostenibilità spesso patinati e autocelebrativi, Patagonia sceglie deliberatamente un’altra strada: raccontarsi come un cantiere aperto.
“La Terra è il nostro unico azionista”
Il punto di svolta è noto: nel 2022 Yvon Chouinard ha trasferito la proprietà di Patagonia a una struttura che fa sì che i profitti eccedenti vadano alla tutela dell’ambiente. Da allora, il messaggio chiave è diventato una frase destinata a restare: “Earth is now our only shareholder”.
Nella maggior parte delle aziende, il lessico recita: creare valore per gli azionisti, bilanciando l’attenzione a clienti, dipendenti, fornitori, e comunità… Patagonia capovolge lo schema: il pianeta non è più uno “stakeholder” da soddisfare insieme agli altri, ma la ragione stessa per cui l’impresa esiste. Il resto - profitti inclusi - diventa strumento, non fine.
Questo si riflette anche nel modo di rendicontare: il Progress Report non è solo una collezione di KPI; è il modo con cui l’azienda rende conto al suo “azionista” principale, la Terra, prima ancora che ai mercati.
Dal “bilancio di sostenibilità” al “work in progress”
Il titolo del documento non è casuale: Work in Progress Report. Non “Impact Report” e basta, ma una dichiarazione di incompletezza. Patagonia spiega che questo report vuole raccontare come sta sbagliando, dove sta migliorando e quali sfide continuano a resistere ostinatamente.
Qui il confronto con lo standard tipico è inevitabile.
Il classico report di sostenibilità è spesso un oggetto lucido: grafici perfetti, fotografie evocative, una sequenza di risultati positivi, target quasi sempre “on track” e un linguaggio che addomestica ogni problema in una formula rassicurante. La narrazione dominante è: stiamo facendo tanto, faremo ancora di più, state tranquilli.
Patagonia adotta un’altra grammatica.
Parte dai limiti, non dai trofei. Ricorda che i suoi impatti climatici sono ancora superiori alla capacità di compensarli, che le emissioni aumentano quando crescono volumi e supply chain, che alcune strade - come la corsa a dichiarare la “carbon neutrality” - sono state riconsiderate perché rischiano di semplificare un problema complesso.
Non è una confessione masochista: è una scelta di metodo.
Dati “duri”, linguaggio diretto
Il merito del report non è solo nel tono, ma nel modo in cui intreccia dati e narrazione. Da un lato, ci sono i numeri: oltre il 90 per cento del poliestere e quasi il 90 per cento del nylon usati nei prodotti provengono da fonti riciclate, con l’obiettivo di ridurre l’uso di petrolio e valorizzare i flussi di rifiuti.
In parallelo, l’azienda dichiara che il 98 per cento dell’elettricità utilizzata deriva da fonti rinnovabili, e che sta lavorando sul restante 2% senza affidarsi a scorciatoie di facciata.
Ma subito dopo questi numeri arrivano le frasi che, in un report chiamiamolo “normale”, subirebbero il rischio di venir accuratamente limate: ammissioni di ritardo, settori in cui gli obiettivi non sono stati raggiunti, progetti accantonati perché non funzionavano, incertezze su come affrontare la fase d’uso e fine vita dei capi.
Questa combinazione - durezza dei numeri, durezza delle parole - è la vera differenza di stile. Patagonia rafforza i propri messaggi: l’impatto positivo c’è, ma l’impatto negativo non scompare dal racconto.
Il pianeta come stakeholder… ma sul serio
Molte imprese amano parlare di “stakeholder capitalism”. La parola stakeholder è ormai un mantra: tutti ascoltano tutti, formalmente. Nella pratica, quasi sempre, il baricentro resta il conto economico.
Quando Patagonia afferma che la Terra è il suo unico azionista, introduce un elemento che, se preso sul serio, è destabilizzante. Vuol dire che:
i profitti non sono il metro principale di successo, ma una risorsa da reinvestire nella protezione ambientale;
la strategia non può essere una somma di progetti “green”; l’azienda deve essere in grado di rispondere ad una domanda chiara: stiamo alleggerendo il nostro carico sul pianeta, oppure no?
Nel Work in Progress Report, questa domanda attraversa le sezioni su materiali, energia, catena di fornitura, diritti delle persone.
Una lezione di onestà radicale al resto del mercato
Il paradosso è che proprio questa onestà – ammettere che “niente di ciò che facciamo è sostenibile” – è ciò che oggi rende Patagonia un benchmark per la comunicazione aziendale su clima, lavoro e diritti umani. Diversi osservatori parlano del report come di un nuovo standard di trasparenza, più utile di tanti pdf impeccabili ma sterili.
Qui è interessante allargare lo sguardo. L’economista dei sistemi Donella Meadows ammoniva: “We’ll go down in history as the first society that wouldn’t save itself because it wasn’t cost-effective”.
È esattamente il rischio che Patagonia cerca di evitare: ridurre la sostenibilità ad un calcolo di convenienza, a una linea nel piano industriale, a un allegato al bilancio. Quando decide di pubblicare un report che mette in risalto tanto i progressi quanto le mancanze, l’azienda sta dicendo qualcosa di scomodo ma necessario: se la sostenibilità è solo comunicazione, non è sostenibilità.
Cosa può imparare un’azienda “normale”
Certo, non tutte le imprese possono permettersi di trasferire la proprietà a un trust e dichiarare che il pianeta è il loro unico azionista. Ma il “metodo Patagonia” può essere replicabile.
Significa, per esempio, smettere di usare il report di sostenibilità come brochure: meno slogan, più numeri; meno storytelling rassicurante, più analisi di rischio; meno “best practice”, più attenzione a ciò che ancora non funziona.
Significa avere il coraggio di scrivere nero su bianco quali sono le aree dove l’azienda continua ad avere un impatto negativo rilevante - e quali decisioni concrete intende prendere per ridurlo, anche a costo di sacrificare qualche punto di margine nel breve periodo.
Patagonia non è perfetta, e lo ripete per prima. Ma proprio il fatto di rifiutare la retorica della perfezione la rende oggi un caso di studio vivo, più interessante di molte storie “da manuale”. Non perché abbia tutte le risposte, ma perché ha scelto la cosa più difficile per un’azienda: farsi conoscere per quello che è mentre sta ancora cercando le domande giuste.


