Per la compagna dell’amministratore di Srl un onere di prova più attenuato rispetto ai soci
di Andrea Gaeta
Una recente ordinanza della Corte di cassazione, la n. 7583 del 21 marzo 2025, consente di fare il punto sul tema dell’estensione delle indagini finanziarie nei confronti di soggetti terzi rispetto a quello sottoposto a controllo.
La vicenda prende le mosse dall’accertamento operato nei confronti di una s.r.l., alla quale l’Agenzia delle Entrate aveva contestato maggiori ricavi non dichiarati desumendoli dai conti correnti del legale rappresentante, della sua convivente e dell’unica socia. Soccombente nei due gradi di merito, la società ha contestato la carenza di prova della riferibilità a sé delle movimentazioni sui conti bancari delle due donne e, conseguentemente, l’illegittima estensione della presunzione.
Non è raro che le indagini finanziarie vengano attivate su conti intestati a soggetti terzi rispetto al soggetto (normalmente, un imprenditore individuale, un professionista o una “piccola” società di capitali), nei cui confronti è condotta l’istruttoria. Secondo la Cassazione, tale prassi non contrasta con il divieto di doppia presunzione, il quale non risulta violato se a una – almeno, secondo la Corte – presunzione legale (quella per cui versamenti e prelevamenti corrispondono ad altrettanti ricavi) viene correlata una presunzione semplice (quella per cui movimenti di terzi corrispondono a movimenti del contribuente “accertato”).
Dalla lettura delle pronunce di legittimità può evincersi l’esistenza di due diverse sensibilità (sarebbe forse eccessivo parlare di “orientamenti”).
In diverse pronunce, infatti, si afferma che le movimentazioni sui conti dei soci e degli amministratori possono essere automaticamente ricondotte a una società a ristretta base, salvo prova contraria, perché gli interessi economici perseguiti da tale società si identificherebbero in quelli propri dei soci. Lo stesso principio viene ribadito in tema di rapporti tra coniugi o altri familiari, perché l’intestazione del conto al coniuge è un «espediente normale […] quando il contribuente sia soggetto a verifiche fiscali» (così, in motivazione, Cass. n. 22903/2020; si vedano anche Cass. n. 24208/2021, n. 4780/2023, n. 11168/2024).
Tale indirizzo rende ancor più rigida l’applicazione di una disposizione, l’articolo 32 del Dpr n. 600/1973, che per una serie di ragioni che qui non possono essere affrontate dovrebbe costituire una mera fonte d’innesco per gli accertamenti, ma che la Cassazione ha progressivamente trasformato in una presunzione legale superabile solo attraverso una rigida controprova analitica, che può essere attivata addirittura senza contraddittorio (Cass. n. 23133/2022), senza autorizzazione (Cass. n. 4853/2024) e nei confronti di tutte le categorie di contribuenti, compresi i dipendenti (Cass. n. 10187/2022), e questo sebbene la norma faccia riferimento a “ricavi” (= redditi d’impresa) e a “compensi” (= redditi di lavoro autonomo).
A ben vedere, l’indirizzo in parola contrasta con la prassi della stessa Agenzia delle entrate la quale, nella circolare n. 32/E/2006, al § 5.2, sottolinea l’esigenza che sia l’ufficio accertatore a «dimostr[are] che la titolarità dei rapporti come delle operazioni è “fittizia o comunque è superata”, in relazione alle circostanze del caso concreto, dalla sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie rilevate dalla documentazione “bancaria” acquisita».
A un orientamento più “garantista”, secondo cui è l’Ufficio a dover provare la riferibilità dei conti dei terzi al soggetto “indagato”, aderiscono altre sentenze, come Cass. n. 26768/2020 (fattispecie di indagini svolte sui conti di società collegate a quella controllata) e Cass. n. 2386/2019 (fattispecie di indagini estese al coniuge della contribuente, imprenditrice individuale, e a un altro soggetto sul cui conto il coniuge operava perché munito di procura).
Altre sentenze, poi, distinguono in base ai titolari dei conti “incriminati”: così, per Cass. n. 19072/2022, è l’Ufficio a dover provare l’intestazione “fittizia” per il conto intestato al fratello dell’imprenditore, mentre se il conto è cointestato (nel caso di specie, con i genitori) la (cosiddetta) presunzione può operare senz’altro. In termini analoghi, si veda anche Cass. n. 25004/2024.
L’ordinanza in commento si colloca in una posizione mediana: da un lato, con riferimento all’unica socia, la Cassazione afferma che i movimenti possono senz’altro essere attribuiti alla società; dall’altro, per la convivente dell’amministratore unico, afferma che è l’Ufficio a dover provare l’intestazione fittizia del conto e, in particolare, che sia riscontrata «l’esistenza […] di uno stabile legame affettivo di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».
Nel caso di specie, quindi, la Cassazione oscilla tra un atteggiamento di massimo rigore per il socio, reo di far parte di una piccola società e quindi non solo destinatario per definizione del “nero” ma anche naturalmente propenso a mettere a disposizione il proprio conto personale per fini illeciti, e un atteggiamento improntato a un estremo garantismo per il convivente more uxorio, rispetto al quale si richiede all’Ufficio, e al Giudice, di svolgere un’improbabile indagine psicologica.
Sarebbe forse più corretto, nonché lineare, affermare che è sempre l’Ufficio, attore in senso sostanziale, a dover fornire la prova dell’imputabilità al soggetto accertato dei conti di terzi. Comunque la si voglia pensare con riferimento al “funzionamento” delle indagini finanziarie (mezzo per acquisire dati rilevanti da “porre a base” per gli accertamenti, o – come teorizza la Cassazione – presunzione legale di evasione?), questa soluzione sarebbe l’unica coerente con la disposizione in tema di onere della prova (l’articolo 7, comma 5-bis, Dlgs n. 546/1992), nella parte in cui richiede che l‘accertamento avvenga in “coerenza con la normativa sostanziale”.
L’Agenzia può senz’altro attribuire all’indagato le movimentazioni di un conto altrui, ma dovrebbe esser tenuta a provare, in tutti i casi in cui invoca l’estensione “soggettiva” della cosiddetta presunzione, che il conto sia nella sostanziale disponibilità dell’indagato e che le movimentazioni non siano personali.