Parità di genere sul lavoro: progresso o stallo? Una riflessione per il 2025
di Claudio Garau
Quanto è stato fatto finora dal legislatore per colmare il gender gap? Sicuramente molto e l'impegno delle istituzioni, negli anni, non può essere di certo sottovalutato o trascurato. Ma il dato normativo è stato applicato con diligenza dai datori di lavoro? La questione è aperta e ricorrente tra i giuristi, i lavoratori e i giovani. Ma, a ben vedere, una risposta soddisfacente – e in grado di mettere d'accordo tutti - pare ancora lontana.
Anzi il dibattito sulla parità di genere è attualissimo, proprio perché le disuguaglianze – lo diciamo apertamente – persistono diffusamente. E come vedremo più avanti, sono i numeri a fugare i dubbi.
Non sorprendiamoci allora se nelle sedi istituzionali si discute – anche animatamente - di lotta al divario uomo-donna nel lavoro, e lo stesso si fa nei convegni accademici o nelle conferenze internazionali come ad es. il Women’s Forum for the Economy & Society o il Global Women’s Summit.
Come arricchire le politiche aziendali con il rispetto per la diversità? Quali indicazioni deve o dovrebbe seguire un datore di lavoro? Vero è che, negli ultimi decenni, l'evoluzione normativa sulla parità di genere è evidente. Di impulso è ad es. la direttiva 2006/54/CE che vieta categoricamente le discriminazioni tra sessi (ad es. per l'assunzione), e sulla stessa linea - in tempi più recenti – si colloca la direttiva UE 970/2023 sulla trasparenza retributiva.
Ma, come è noto, le regole UE vanno poi tradotte e calibrate nei provvedimenti nazionali, come pure applicate dai destinatari.
L'Italia - dicevamo - ha fatto il suo. Basta leggere alcuni testi normativi oggi vigenti, come ad es. la legge sulla certificazione della parità di genere (con vantaggi fiscali e contributivi per le aziende certificate) o il Codice delle pari opportunità. Anzi da molto tempo il legislatore indica una lodevole linea normativa. Il problema semmai sta altrove, ossia nell'applicazione effettiva delle regole. Al progresso normativo si contrappone infatti lo stallo e l'anacronismo di talune discutibili prassi aziendali, che paiono ancora ancorate al XX secolo.
Non sorprendiamoci se, in giro per l'Italia e specialmente negli spazi lontani dalla cd. city, troviamo ancora uffici dal “sapore” antico, permeati da una cultura aziendale retrograda e di vecchio stampo - se non addirittura da un malcelato maschilismo. Ambienti che si scontrano con le odierne normative sulla parità uomo-donna.
Come più volte segnalato dall'Istat, le carriere femminili patiscono tuttora un divario con i maschi sul piano retributivo, della durata dei contratti e delle chance di carriera. Ma non solo. Sono tuttora frequentemente interrotte per maternità o cura di familiari, con un marcato impatto sulla progressione professionale. D'altronde – a ben vedere - in Italia non è ancora tramontato il cliché per cui la donna è la persona deputata alla cura della casa e della prole. E la maternità è vista un ostacolo, pur con leggi favorevoli alla genitorialità e gli sgravi fiscali.
Anzi, nell'ultimo Rapporto annuale, Istat ha spiegato che - nonostante la maggior presenza femminile nelle università e nelle professioni altamente qualificate - il divario è ampio quando si tratta di ruoli apicali, con la percentuale di donne nei CdA che resta ben al di sotto della parità con il sesso maschile (e nonostante la legge sulle Quote Rosa).
I datori che, invece, eliminano gli ostacoli alla carriera delle donne, sono coloro che stanno ottenendo i migliori risultati sul piano della produttività e innovazione. Lo dimostrano alcuni studi McKinsey Global Institute, secondo cui le aziende con più partecipazione femminile nei ruoli dirigenziali, tendono ad avere risultati finanziari migliori rispetto a quelle che non investono saggiamente nella parità di genere.
Non solo. Se guardiamo ai risultati dell'ultimo Bilancio di Genere pubblicato dal MEF (anno 2022), troviamo interessanti statistiche. Per es. uno dei maggiori indicatori utilizzati è il cd. Gender Equality Index, il quale mostra che tra il 2010 e il 2021 il paese – sul piano dell'uguaglianza uomo-donna - ha effettivamente avuto uno dei maggiori progressi in Europa. Inoltre, tra il 2010 e il 2023, il tasso di occupazione femminile è cresciuto dal 46 al 52,2%, pur restando ben lontano dalla media europea (circa 65%).
Tuttavia, come conferma il rapporto Le Equilibriste di Save The Children (2024) la differenza di tasso di occupazione uomini-donne in Italia resta oggi di poco meno di 18 punti percentuali, ben più alto rispetto alla differenza media UE (9,4).
Insomma, a ben vedere, nel cammino verso la parità di genere la strada da fare è ancora lunga e - per questo - una riflessione su quanto è stato fatto finora, appare imprescindibile.