Quando un cliente si presenta con una richiesta che esce dal perimetro abituale delle proprie competenze, ogni professionista - che sia commercialista, consulente del lavoro o avvocato - si trova di fronte a un bivio esistenziale: accettare l’incarico e studiare “on the job”, oppure declinare educatamente ammettendo i propri limiti? Non è solo una questione tecnica o deontologica: è un dilemma che tocca l’identità professionale, il rapporto con il rischio e, sorprendentemente, anche le differenze di genere nell’approccio al lavoro.
Il confine della competenza: cosa dice la deontologia
Prima di tutto, la chiarezza normativa. I codici deontologici delle professioni ordinistiche sono espliciti: il professionista non deve accettare incarichi per i quali non possiede adeguata competenza. L’articolo 8 del Codice Deontologico dei Commercialisti stabilisce che “il professionista non deve accettare incarichi professionali in materie su cui non ha un’adeguata competenza, tenuto conto della complessità della pratica”. Analogamente, il Codice Deontologico Forense (articoli 14 e 26) vieta l’assunzione di incarichi senza l’adeguata preparazione, sottolineando che l’avvocato deve assicurare “la qualità delle prestazioni professionali”.
La ratio è evidente: tutelare il cliente da prestazioni inadeguate e proteggere la dignità della professione. L’inadempienza a questi obblighi comporta sanzioni disciplinari che vanno dalla censura alla sospensione dall’albo. Ma la realtà quotidiana degli studi professionali è più sfumata di quanto i codici lascino trasparire.
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