Lo chiamavano Oblomiro, non per omaggio a qualche illustre antenato russo, ma per la sua capacità innata di rinviare anche la respirazione, come se vivesse in una eterna apnea. Abitava in un appartamento al terzo piano di un palazzo ottocentesco affacciato su una piazza dove il selciato aveva memoria più lunga delle leggi. Al mattino la luce filtrava come una clemenza e lui, sprofondato in una poltrona verde salvia con i braccioli consumati, si esercitava in quella che considerava la più alta delle arti civili, vale a dire l’attesa. In quei giorni la città mormorava una parola nuova che sapeva, al contempo, di antico e di eterno ritorno: rottamazione quinquies, ovvero l’ultima apparizione della sanatoria italica, l’ennesima promessa che il passato poteva essere domato con un bollettino, un flebile mea culpa e un sospiro profondo.
Fu un banditore a portare la notizia, cappello piumato e tamburo, un cartiglio appeso alla bacchetta. Lettura pubblica in piazza, calligrafia decorativa, qualche latinismo incartapecorito e, soprattutto, la sostanza, fatta di sanzioni alleggerite, interessi come brodo allungato, l’aggio che si ritrae come l’onda davanti alla scogliera e pagamenti a rate lunghe quanto una malinconia d’amore. Bastava presentare istanza, dichiarare il debito, rinunciare a litigarlo oltre misura, e poi pagare il capitale. Ci si poteva pure redimere da cartelle tanto vecchie da odorare di naftalina d’archivio, purché affidate all’esattore in tempi compatibili con le tavole affisse. La gente annuì con quel sollievo che da noi si confonde con la speranza. Oblomiro fece di più, sbadigliò.
Aveva un consulente, il ragioniere Pizzolon, marsina lucida, occhialini ovali, un pallottoliere con più viaggi di un transatlantico. Il ragioniere, con tatto da farmacista e pazienza da certosino, gli spiegò le liturgie. Prima cosa, l’elenco dei debiti con la loro genealogia, le annualità, gli estremi del ruolo, le iscrizioni a ruolo speciali e ordinari, le appendici contributive e le parti che la definizione non avrebbe toccato perché la pietà fiscale ha confini, altrimenti si chiamerebbe amnesia. Seconda cosa, la domanda entro i termini, che non sono un’opinione ma una ghigliottina di velluto. Terza cosa, il pagamento delle rate, ciascuna con il suo piccolo rigore, ché la dolcezza dello Stato dura finché però non si sgarra di calendario.
Oblomiro ascoltava come si ascolta il mare dietro i vetri, con un senso di poesia e zero intenzione di bagnarsi. Ogni tanto faceva domande che non erano domande e se la cavava con massime da dormiveglia. Se le sanzioni sono nate per non essere pagate, non è elegante lasciarle orfane. Il ragioniere sorrise con l’affetto che si serba agli irrecuperabili e riprese a snocciolare cifre, percentuali, scenari. Ci sono debiti che hanno la barba, disse, ma la barba si taglia, non la si mette a mollo in perpetuo. L’ufficio emette i prospetti, la tesoreria attende, gli interessi si spengono come un lume d’olio e l’aggio smette di fare il guardiano di notte. Serve il suo segno in calce, serve il Sigillo Personale Identificativo Ducale, una ceralacca, chiamiamolo pure SPID del tempo andato, per poi avanzare felici verso la quiete fiscale.
La quiete, parola pericolosa con Oblomiro. Per lui quiete significava rimandare fino a quando il rimandare si spegne da solo. Guardò la finestra, un raggio di sole gli disegnò una promessa sulla moquette lisa. Ci penso domani, disse, mentre il ragioniere lo congedò, sapendo che la più tenace delle virtù fiscali è la perseveranza della scadenza.
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