Notifica a casella piena: doppio standard tra giustizia civile e tributaria?
di Simona Baseggio, Andrea Gaeta, Barbara Marini
Nel sistema italiano della notificazione digitale si sta consolidando un duplice regime giuridico che, se letto con occhio critico, rischia di evidenziare una frattura profonda tra il diritto civile e quello tributario, tra la tutela del cittadino e la preminenza dell’azione impositiva. È questo lo spunto che emerge, con tutta la sua forza dissonante, dalla lettura incrociata dell’articolo 60-ter del Dlgs n. 600/1973 e della recente ordinanza della Corte di cassazione n. 25084 del 12 settembre 2025.
Nel caso oggetto dell’ordinanza, la Suprema Corte ha annullato la decisione del Consiglio nazionale degli architetti che aveva ritenuto tempestivamente notificato via PEC un provvedimento disciplinare, malgrado l’evidenza della mancata consegna per “casella piena”, e quindi tardiva la notifica del ricorso del professionista. La Cassazione ha chiarito un principio fondamentale: la notifica non si perfeziona se l’atto non è effettivamente reso disponibile nella casella del destinatario. E ciò anche se il destinatario è in colpa per non averla svuotata. La Corte ha opposto all’argomento dell’autoresponsabilità l’esigenza, costituzionalmente imposta, di garantire un’effettiva conoscibilità dell’atto, quale presupposto indefettibile del diritto di difesa.
A fronte di questa lettura garantista, è inevitabile il confronto con la disciplina dettata in ambito tributario dall’articolo 60-ter del Dlgs n. 600/1973. Qui, in caso di casella PEC satura, l’Agenzia delle Entrate è tenuta a un secondo invio dopo almeno sette giorni; ma se anche questo fallisce, la notifica viene effettuata secondo modalità alternative: in taluni casi mediante deposito telematico (per le imprese), in altri casi secondo le regole ordinarie ex articolo 60 del Dlgs n. 600/1973, e quelle del c.p.c. da esse non modificate, con l’esclusione dell’articolo 149-bis c.p.c.
Tuttavia, il dato cruciale è che l’articolo 60-ter considera comunque perfezionata la notifica per il notificante al momento della ricevuta di accettazione del primo invio PEC. L’atto, dunque, può dirsi notificato anche se mai effettivamente consegnato. Al destinatario si offre un rimedio solo di secondo livello, in un sistema che pare costruito più per garantire la certezza dell’azione amministrativa che per tutelare il diritto alla conoscenza effettiva dell’atto.
E qui si apre il vero nodo: può il legislatore derogare così profondamente al principio di conoscibilità dell’atto, e quindi di diritto di difesa del contribuente, in nome di un interesse fiscale che, pur essendo rilevante, non ha rango costituzionale?
È questo il punto che ci invita a riflettere sull’eventuale gerarchia occulta tra diritto sostanziale e interesse fiscale, tra soggetto passivo e soggetto pubblico. Come ha sostenuto il prof. Giovannini nella relazione presentata al convegno di Blast di Bologna del 25 settembre, l’interesse fiscale non può essere elevato a principio costituzionale: esso non è un diritto, né un dovere, bensì una “escrescenza del potere”, una categoria politica e ideologica, priva di autonoma dignità giuridica. Il bilanciamento tra potere e diritti non può basarsi sull’interesse fiscale, ma solo sul dovere contributivo – che è altra cosa, perché fondato sull’articolo 53 Cost.
Secondo tale impostazione, la compressione dei diritti fondamentali del contribuente (ad esempio il diritto alla conoscenza effettiva di un atto che lo riguarda) dovrebbe essere ammessa solo laddove necessario a garantire un altro diritto o dovere costituzionale, e non per ragioni organizzative o funzionali dell’amministrazione finanziaria.
Il dubbio, allora, si fa più che legittimo: perché al destinatario di una notifica disciplinare civile è riconosciuta una tutela piena, mentre al contribuente viene imposto un regime che lo espone al rischio di inconsapevolezza? La saturazione della casella PEC, nel primo caso, non impedisce la tutela del diritto di difesa; nel secondo, invece, può determinare l’efficacia di una notifica a prescindere dalla sua conoscibilità.
Due pesi e due misure. Due modelli di giustizia. E forse, due visioni inconciliabili del rapporto tra Stato e cittadino.
Da un lato, la giustizia civile che pone al centro la persona e il suo diritto ad essere informata; dall’altro, la giustizia tributaria che – sotto la pressione della funzionalità impositiva – pare accettare una compressione della dimensione soggettiva.
La domanda finale è ineludibile: siamo di fronte a una forma di diseguaglianza sistemica, travestita da specialità normativa? E ancora: può la specialità del rito tributario giustificare una rinuncia ai principi del giusto processo, se intesi nella loro sostanza e non come meri formalismi?
L’ordinanza della Cassazione, benché resa in materia civilistica, sembra gettare un’ombra lunga sul sistema delle notificazioni tributarie. È possibile che i principi enunciati siano destinati ad espandersi anche oltre il recinto del diritto processuale civile, ponendo interrogativi profondi sulla tenuta costituzionale di un sistema che tutela l’efficienza dell’apparato impositivo a discapito della parità tra le parti.
Forse è giunto il tempo, come suggeriva Pericle ad Alcibiade, di domandarci non cosa sia legge, ma se ciò che chi comanda fa mettere per iscritto possa ancora definirsi “giusto”.