Non solo tasse: come l’Adempimento Collaborativo ha cambiato il rapporto tra Stato e Imprese
di Chiara Forino
Quando, nel febbraio 2011, entrai in Agenzia delle entrate come funzionaria di una Direzione Provinciale della Lombardia, scoprii un complesso universo in cui migliaia di persone si occupavano di attività molto diverse tra loro, dai servizi ai controlli. Imparai in fretta che, tra le pubbliche amministrazioni, l’Agenzia non era nella top ten delle più amate. Anzi. La cosa che più mi stupì fu che questa avversione non derivava dall’obbligo di pagare tasse, imposte e gabelle, ma dalla complessità degli adempimenti fiscali, dall’incertezza interpretativa delle norme e dalla paura di sbagliare, accompagnata dalla consapevolezza che, in caso di errore, la sanzione sarebbe stata molto onerosa, a prescindere dalla buona fede di chi aveva commesso l’errore. Il contribuente onesto e volonteroso si sentiva braccato, intrappolato in una relazione asimmetrica in cui lo Stato si poneva come severo controllore ex post, a cui era impossibile o molto complesso chiedere in anticipo come comportarsi per essere certi di non sbagliare.
Qualche anno dopo, nel piano programmatico 2015-2017, si iniziò a parlare di Adempimento Collaborativo, un regime fiscale basato su “rapporto di mutua collaborazione fondato su un dialogo aperto e trasparente atto a favorire l’adempimento spontaneo” degli obblighi tributari, cui si affiancavano la voluntary disclosure per gli investimenti esteri e il consolidamento del tutoraggio delle imprese con un volume d’affari o ricavi superiore ai 100 milioni di euro, di cui un nuovo regime sarebbe stato la naturale evoluzione.
Nonostante le intenzioni del legislatore fossero ottime, è inutile negare che il timore che questo nuovo approccio fosse l’ennesimo tentativo di cambiare tutto per non cambiare nulla serpeggiava sia dentro che fuori dall’amministrazione di cui facevo parte.
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