In Italia la violenza di genere è un problema culturale che interessa tutte le persone, non una sommatoria di casi individuali. Prenderne atto e superare la semplicistica dicotomia che contrappone uomini carnefici e donne vittime è il primo, fondamentale, passo per intraprendere la strada verso la sua eliminazione.
Mi rendo conto che l’argomento è complesso e che ci si muove in un terreno scivoloso, dove il rischio di essere fraintesa è elevato, ma oggi più che mai penso sia necessario avere coraggio e provare ad ampliare la prospettiva, partendo da un punto fermo e non negoziabile: la violenza, in qualsiasi forma e nei confronti di qualsiasi essere umano, è un’aberrazione la cui responsabilità è in capo esclusivamente alla persona che la commette. Non alla vittima. La cultura è un elemento, non una scusante.
Oggi, infatti, si celebra la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999, in memoria delle tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, torturate e uccise il 25 novembre 1960 per le loro attività contro la dittatura di Trujillo nella Repubblica Domenicana. Nel documento la violenza contro le donne viene definita come “qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata”.
Un perimetro esteso oltre l’aspetto fisico e sessuale, che include tutti gli atti che comportano danni e sofferenze non solo fisiche, ma anche psicologiche. La violenza, infatti, non è solo botte, stupri, molestie. È isolamento, denigrazione, svalutazione. È impedire di avere indipendenza economica. È considerare quello femminile “il sesso debole”, da pagare meno. Che deve rinunciare alla carriera per la famiglia, che deve occuparsi della cura e dell’educazione, lasciando agli uomini il potere decisionale ed economico e i settori più redditizi. Qualche numero: il tasso di occupazione femminile in Italia è del 54 per cento, a fronte del 70,4 per cento degli uomini. Il 37-40 per cento di donne non possiede un conto corrente a proprio nome e ben il 5 per cento non ne ha alcuno, nemmeno cointestato. Una donna su 5 rinuncia al lavoro dopo il primo figlio, il 77 per cento di chi lascia il lavoro dopo la nascita di un figlio è donna, come il 60 per cento dei caregiver. Le donne guadagnano in media il 16 per cento in meno degli uomini. Non solo perché, a parità di condizioni, vengono pagate meno, ma anche perché in genere trovano lavori in settori meno remunerativi, con contratti atipici (part-time in primis) e con inquadramenti più operativi che manageriali.
Poi ci sono le piccole violenze quotidiane, che, come goccia nella roccia, scavano nell’animo di chi le subisce: insinuazioni sulla carriera, apprezzamenti fisici alle sottoposte, richieste sessuali più o meno velate, contatti fisici invasivi, giudizi su fisico e abbigliamento, squalifica delle competenze. Comportamenti che, ancora oggi, molte persone rubricano a esagerazioni isteriche o ragazzate innocue.
Body shaming, cat-calling, gender gap, salary gap, glass ceiling non sono nomi esotici, sono i mille volti in cui viene descritta la violenza di genere. Particolarmente subdolo il glass ceiling, noto anche come tetto di cristallo. È l’insieme di barriere sociali, culturali e psicologiche che si frappone come ostacolo invisibile, ma insormontabile, all’accesso a posizioni di vertice nel mondo del lavoro e della società. Barriere che non sono esplicite e normative, ma frutto di pregiudizi inconsci, stereotipi e discriminazioni e che vengono alimentati in modo inconsapevole non solo dagli uomini, ma, spesso, dalle donne stesse.
Il nostro ordinamento ha provato, negli anni, a scardinare questo tipo di violenza con numerosi interventi normativi. Nella nostra Carta Costituente l’articolo 3 sancisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso (oltre che di razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) e incarica la Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. L’articolo 37 prevede che la donna lavoratrice “ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”, ma evidenzia anche che essa svolge l’essenziale funzione di cura familiare e che, pertanto, è necessario assicurare alla madre e al bambino una “speciale adeguata protezione”.
Tra i successivi interventi legislativi finalizzati alla parità di genere voglio ricordare, in un breve e certamente non esaustivo elenco, la Legge 903 del 9 dicembre 1977 sulla “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, il cui primo articolo vieta “qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”, la Legge 154 del 4 aprile 2001 contenente “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”, il Codice Rosso (Legge 69 del 19 luglio 2019), in cui il legislatore ha voluto rafforzare la tutela delle vittime di maltrattamento, violenza sessuale, atti persecutori e violenze connessi a contesti familiari e affettivi, che sono, per la maggioranza, donne. Il Decreto legislativo 198/2006, rubricato “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”, contiene disposizioni per promuovere la parità tra i generi nei rapporti etico-sociali, economici, civili e politici, è stato oggetto di una recente modifica (L. 162/2021) che ha, inter alia, ampliato la nozione di discriminazione diretta e indiretta in ambito lavorativo e stanziato 50 milioni di euro (per il 2022) per favorire l’occupazione femminile in condizioni di parità di salario e di opportunità di crescita professionale. Ultima, in ordine di tempo, ma non per importanza, la Legge 120 del 12 luglio 2011 che, ha introdotto le quote rosa per le società quotate, con l’obiettivo di assicurare l’equilibrio tra i generi. Quote che prevedono che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo degli amministratori eletti e del collegio sindacale, con la previsione di sanzioni amministrative e, nei casi più gravi, la decadenza dalla carica dei componenti eletti in caso di inosservanza.
Accanto agli interventi normativi, essenziali, ma non sufficienti a cambiare la realtà, le istituzioni e la società civile da anni promuovono campagne di sensibilizzazione, sviluppano piani strategici nazionali (l’ultimo, pubblicato dall’Istat, è datato 16 luglio 2025 e riguarda il biennio 2025-2027) e rendicontano la realtà con dati e statistiche (come fa UN Women Italy nel promuovere i WEPs (Women’s Empowerment Principles) e le certificazioni volontarie sulla parità di genere.
Un processo complesso, non lineare, che prova a modificare una realtà che per secoli ha visto le donne escluse dalla vita pubblica e istituzionale, dove era “normale” che venissero pagate meno, nonostante le previsioni costituzionali, che dovessero obbedire al marito (obbligo abrogato solo nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia), che non accedessero agli uffici pubblici (accesso garantito a tutte le cariche solo con la L. 66/1963) e che, in caso di stupro (diventato reato contro la persona solo nel 1996), dovessero sposare il loro stupratore per salvare l’onore della famiglia (idea aberrante, ma abolita dal nostro ordinamento solo nel 1981 grazie al coraggio di una donna e la sua famiglia).
Nel nostro Paese il cambiamento c’è, ma è lentissimo e incontra quotidianamente innumerevoli ostacoli, che ognuno di noi ha la possibilità, nonché il dovere morale, di tentare di rimuovere. Che tu sia uomo o donna o che non ti riconosca in nessuno dei due generi tradizionali, il problema ti riguarda direttamente: sia perché la parità è una conquista per tutte le persone, non solo per le donne, sia perché una società inclusiva, rispettosa e che applica realmente i principi sanciti nella nostra Costituzione è una società più forte, più “resiliente”, in cui tutti possono vivere sicuri e sviluppare tutto il loro potenziale.
Per questo si deve puntare all’equità sociale, più che alla “semplice” lotta al “patriarcato” (che danneggia uomini e donne). Fare fronte comune tra persone civili contro la violenza, invece che polarizzare le posizioni etichettando tutti gli uomini come carnefici e tutte le donne come vittime. Uscire dagli schemi che alimentano e giustificano la violenza di genere e agire per la giustizia, anziché contro una categoria.
Donne, assumiamoci le nostre responsabilità. Diventiamo consapevoli dei nostri diritti e facciamoli valere. Liberiamoci delle catene che gli stereotipi ci hanno affibbiato di esseri deboli e indifesi. Facciamo squadra, non contro gli uomini, ma contro comportamenti violenti, limitanti, discriminatori, da chiunque provengano. Non aspettiamo di essere salvate, aiutate, protette da qualcuno. Siamo come Lidia Poet, Franca Viola, Gabriella Luccioli, che non si sono piegate a un destino già scritto, hanno preso in mano la loro vita e hanno cambiato la storia del nostro Paese.
Uomini, vi esorto. A non sminuire il peso della disuguaglianza di genere che affligge il nostro Paese. A non avere paura di prendere posizione contro chi pone in essere azioni che ostacolano la parità di genere, dal mansplaining alle battute sessiste che non fanno più ridere nessuno, fino alle decisioni che impattano sulla vita delle persone. A farvi carico della vostra parte di attività di cura della casa e della famiglia, in un equilibrio domestico e lavorativo che tenga conto delle aspirazioni di tutte le persone coinvolte.
A te, che ricopri un ruolo di responsabilità (professionale, istituzionale, accademico, familiare), chiedo di osservare la cultura interna e i comportamenti reali e di agire apertamente per costruire un ambiente sicuro e inclusivo. I dati dimostrano che ne trarrai enormi benefici: umani, psicologici ed economici.
Ognuno, con le proprie capacità, con la propria sensibilità, con le proprie decisioni quotidiane può fare la differenza. Che sia su una singola persona che sulla collettività, può contribuire al raggiungimento della parità di genere e all’eliminazione, reale e definitiva, di ogni forma di violenza. Iniziando dalle parole (che traducono i pensieri), per arrivare alle azioni.
Oggi, la Giornata Mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne ci ricorda che c’è ancora molta strada da fare. L’invito, rivolto a tutte le persone civili a prescindere dal genere è di essere consapevoli che ogni individuo, sin dal suo DNA, ha una componente maschile e femminile. E che questo dettaglio è una forza da coltivare, non una debolezza da nascondere. È un invito ad agire, ogni giorno dell’anno, affinché ogni persona sia rispettata, sostenuta, protetta dalla collettività in cui si trova a vivere e lavorare. Affinché per vedere il futuro immaginato dal MUPA (Museo del Patriarcato) non si debba aspettare il 2148, l’anno in cui, secondo le proiezioni dell’ultimo Global Gender Gap Report, il mondo potrebbe finalmente raggiungere la piena uguaglianza di genere.
(*) Oggi Blast esce con tutti gli articoli scritti da autrici, perché riteniamo che la consapevolezza del valore della donna, anche da parte del lettore, possa in qualche modo contribuire ad arginare le varie forme di violenza di genere.


