Non si può essere fragili in azienda e personal trainer su Instagram - L’ovvio che diventa giurisprudenza
di Gabriele Silva
Ci sono casi in cui il diritto non illumina zone d’ombra, ma accende il riflettore sull’ovvio.
Un lavoratore dichiarato idoneo con limitazioni al sollevamento carichi per ragioni mediche svolge professionalmente l’attività di personal trainer e atleta di pesistica, documentando le prestazioni sui social.
La Cassazione, con la sentenza n. 28367/2025, conferma il licenziamento.
Fine della storia.
Eppure il solo fatto che questa vicenda arrivi fino alla Suprema Corte racconta qualcosa di più grande: la fatica, oggi, di vivere con coerenza.
Il paradosso della doppia verità
Nel mondo del lavoro moderno, ognuno sembra avere due versioni di sé: quella che firma documenti, autocertificazioni, dichiarazioni mediche… e quella che posta, corre, si allena, si racconta.
La prima appartiene all’ufficio; la seconda, al profilo social.
Ma quando le due entrano in conflitto, è inevitabile che il giudice arrivi.
Non per stabilire quanto pesava il bilanciere, ma per ricordare che la verità — anche contrattuale — non può essere divisa in due.
La buona fede non è un dettaglio tecnico
Da decenni i giuristi scrivono che l’obbligo di correttezza e buona fede (articoli 1175 e 1375 c.c.) permeano ogni rapporto. Ma raramente riflettiamo su cosa significhi davvero: essere interi, non scissi.
La buona fede è la coerenza tra ciò che diciamo e ciò che facciamo.
Non è un dovere verso il datore di lavoro, ma verso la nostra stessa credibilità.
In questo senso, la Cassazione non punisce il lavoratore per essersi allenato, ma per aver recitato due ruoli incompatibili.
Il teatro dei comportamenti
Ogni impresa, nel suo piccolo, è un teatro di fiducia.
Si entra in scena ogni giorno, interpretando un copione che richiede lealtà e continuità.
Quando il pubblico — cioè il datore — scopre che dietro le quinte si recita un’altra parte, il legame si spezza.
E serve una sentenza per ristabilire la trama.
Ma questa decisione non parla solo di diritto del lavoro.
Parla della fatica contemporanea di mantenere un volto unico, coerente, fra l’identità privata e quella professionale.
Il diritto, oggi, si ritrova a giudicare non tanto le infrazioni, quanto le incoerenze.
Fiducia: l’elemento smarrito
Il caso è marginale, ma rivela un’assenza profonda.
Abbiamo trasformato la fiducia — un tempo presupposto naturale — in una prova da produrre, un elemento da dimostrare.
Ci servono i video, le perizie, le relazioni del medico competente per dire ciò che un tempo si percepiva a colpo d’occhio: se una persona è affidabile o no.
La Cassazione, suo malgrado, finisce per fare da educatrice morale di un mondo che ha smarrito il senso dell’evidenza.
Conclusione
Allenarsi con i pesi non è un reato.
Ma mentire alla fiducia, sì — anche quando la bugia si nasconde dietro un certificato medico o un video su Instagram.
Il diritto del lavoro, in fondo, non fa che ricordarci questo: correttezza e buona fede non sono solo articoli del codice.
Sono un peso che si solleva ogni giorno, dentro e fuori l’azienda.


