No alle penalizzazioni nell’accertamento per le donne che fanno figli
di Antonio Borghetti
La C.G.T. di I grado di Trento, con due sovrapponibili pronunce (n. 588/2024 e 180/2025), conferma quanto emerso ed accertato dalle più attente analisi sul tema: “la penalizzazione (nel lavoro) delle donne che hanno figli”. “Mentre per gli uomini al crescere del numero di figli aumentano non solo la partecipazione al mercato del lavoro ma anche lo stipendio medio, per le donne al crescere delle stesse condizioni i due diminuiscono.” (A. Minello, Non è un paese per madri, Laterza, 2024, p. 37).
L’accertamento tributario in questione attiene alla fattispecie relativa ad un’imprenditrice individuale senza dipendenti fissi, che nell’arco di un triennio dà alla luce due figli; il quarto anno, non riuscendo più a conciliare il doppio impegno e, dunque privilegiando l’attività di assistenza familiare, cede l’attività.
L’Amministrazione finanziaria, nell’operare una possibile ricostruzione del maggior reddito proveniente dall’attività, opera la ricostruzione del volume di affari procedendo a ritroso dal dato relativo al valore di cessione: data l’elevata plusvalenza ritratta dall’alienazione dell’azienda (il IV anno) ritiene insufficienti i redditi del triennio precedente ed in una sorta di applicazione a contrario dell’articolo 2, co. 4, del Dpr. 460/1996 accerta maggiori imponibili per detti periodi di imposta. Tuttavia, con tale operazione omette del tutto di considerare che prima della maternità l’imprenditrice aveva un reddito costantemente sopra le medie di settore e solo a decorrere dall’anno ove è collocata la prima maternità v’è una contrazione reddituale e che, dunque, alla prova dei fatti, la metodologia accertativa viene a generare una realtà del tutto inconciliabile con lo status dell’imprenditrice.
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