NFT e criptovalute al vaglio della Cassazione: con qualche dubbio irrisolto
di Lorenzo Romano
La cessione di NFT costituisce reddito imponibile, trattandosi di cessione di opere d’arte, o comunque di opere dell’ingegno, ed il corrispettivo, conseguito mediante l’accredito in criptovalute, va convertito in valuta corrente per determinarne il valore normale da raffrontare con le soglie di punibilità ai sensi dell’articolo 4 DLgs. 74 del 2000 (dichiarazione infedele).
È questo il principio di diritto fissato dalla Corte di Cassazione, sezione terza penale, con la sentenza n. 8269 depositata il 28 febbraio 2025, la quale ha confermato l’ordinanza di sequestro preventivo disposta dal GIP del Tribunale di Torino (e avallata dalla Corte di Appello) per quasi un milione di euro.
È uno dei primi provvedimenti della Giurisprudenza di vertice in materia di NFT e criptovalute, e sembra fissare alcuni punti in ambito penal-tributario, pur lasciandone aperti altri .
La vicenda in esame riguarda un artista che pratica la cybergraphic, realizza, cioè, opere iconografiche che non hanno un supporto materiale, ma sono raffigurate ed esistono solo in forma elettronico-digitale.
Esse, specifica la Corte, sono “incorporate” negli NFT che, essendo dotati di un codice identificativo univoco, ne certificano la titolarità, l’autenticità e l’unicità.
Nel caso di specie, la commercializzazione degli NFT, in cui sono incorporate le opere realizzate dall’autore, è avvenuta attraverso pagamenti eseguiti tramite Ether.
Il ricorrente non ha dichiarato al Fisco, ritenendo che gli stessi non costituissero reddito imponibile, i ricavi da lui realizzati attraverso la commercializzazione degli NFT (sia in occasione della prima cessione da lui stesso operata, sia in occasione delle cessioni successive, realizzate dagli acquirenti, sotto forma di royalties).
La Cassazione ritiene che le opere in questione siano opere dell’ingegno, ovvero opere “qualificabili, in senso lato, artistiche”, e che non costituiscono un ostacolo alla sua qualificazione quale reddito imponibile, né il fatto che oggetto della transazione commerciale sia non immediatamente l'opera, ma l’NFT in cui la stessa è incorporata, né la particolare natura meramente “virtuale” dell'opera in questione, “incorporata” nell'NFT, che, appunto, ne costituisce certificato di proprietà e di autenticità.
A tal fine i Giudici richiamano per analogia quanto avviene per il supporto digitale sul quale è riprodotto un brano musicale ovvero la compravendita di titoli rappresentativi di merci, ritenendo che si tratta di traffico di strumenti, rappresentativi di altro, e comunque di beni patrimonialmente valutabili, il cui commercio è realizzato in termini economicamente rilevanti.
Il fatto che le relative transazioni siano state operate utilizzando quale “moneta di scambio” una “criptovaluta” poco cambia, atteso che si tratta pur sempre di elementi di conto esprimenti valori.
Ritiene il Collegio che attraverso il meccanismo di “stima monetaria” è sempre possibile ricondurre ad un valore quantificabile (tramite il riferimento ad una moneta corrente) il reddito imponibile.
Un po' come avviene per un incremento patrimoniale costituito da un bene in natura (“provento in natura”); e quindi non soltanto nelle ipotesi in cui il reddito in natura sia il frutto diretto della attività materiale svolta dal contribuente (il denaro che il lavoratore, sia dipendente che autonomo, percepisce attraverso la corresponsione del suo compenso reso in moneta), ma anche in rapporto al diverso tipo di beneficio che egli possa conseguire attraverso un cd. benefit (una residenza di servizio, un’autovettura, ecc.).
La circostanza che la "criptovaluta" abbia a sua volta un mercato nel quale la stessa riceve una valutazione, espressa in moneta corrente, fa sì che indubbiamente il valore della "criptovaluta" abbia una rilevanza economica e che, pertanto, il suo ammontare conseguito dal singolo contribuente sia idoneo a costituire reddito imponibile.
Infine, la Cassazione si mostra consapevole del problema della "volatilità" dei valori espressi in "criptovalute" (“assai più spiccata di quelle propria di altro genere di valute”), nonché della determinazione, e quindi della congruenza delle modalità del suo accertamento, ovvero del valore normale di Ether che il contribuente avrebbe dovuto indicare nella sua dichiarazione dei redditi, ma glissa il problema perché non sollevato dalla difesa.
La sentenza in commento però rischia di ingenerare un equivoco di fondamentale importanza sotto il profilo prettamente tributario: le criptovalute sono veramente mezzi di pagamento?
Alcune settimane fa, la medesima sezione della Cassazione, seppur in diversa composizione, con la sentenza n. 1760 del 15.01.2025, sembrava aver risolto ogni dubbio, annullando l’ordinanza della Procura che disponeva (nell’ipotizzata dichiarazione infedele di ricavi da trading di bitcoin) il sequestro probatorio del profitto del reato non diretto, ma per equivalente, in quanto avrebbe dovuto avere ad oggetto l’ammontare delle imposte asseritamente evase, quale profitto dell’illecito tributario, e non il corrispondente controvalore in bitcoin, come disposto dal PM.
Gli Ermellini specificavano lì che i bitcoin (come tutte le criptovalute) non svolgono le funzioni tipiche della moneta avente corso legale nello Stato, in sostanza non possono essere utilizzati per effettuare i pagamenti con valore liberatorio delle obbligazioni contratte anche nei confronti dell'erario per l'estinzione del debito tributario, e che per di più sono soggetti a continue fluttuazioni di mercato.
E ciò in coerenza con la definizione di “valuta virtuale”, prevista dall'articolo 1, lettera d), del Dlgs. n. 184 del 2021 (mutuata dalla direttiva 2015/849), ovvero quella di “rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
Mezzo di scambio e mezzo di pagamento, infatti, non sono la stessa cosa.