Oggigiorno una questione assai ricorrente attiene agli stipendi, alla loro proporzionalità rispetto al carovita, alla variabile inflazione e alle capacità della macchina dello Stato di contrastare le disuguaglianze economiche, offrendo adeguati supporti a chi lavora, tutelando il potere d'acquisto e garantendo condizioni di vita dignitose anche per le fasce più fragili della popolazione.
Salario minimo o salario giusto? La risposta agita gli animi di sindacalisti, datori di lavoro, esponenti della politica, rappresentanti delle istituzioni e, ovviamente, lavoratori. A ben vedere, su questi temi c'è una considerazione di fondo che non può essere tralasciata: in un'epoca in cui le disparità economiche sono misurabili in tempo reale, grazie alla disponibilità immediata di dati e cifre, la distanza tra la busta paga di un top manager e quella di un lavoratore medio non è solo uno squilibrio numerico, bensì è il riflesso di un modello di giustizia distributiva distorto, spesso fondato su narrazioni ideologiche piuttosto che su criteri equi.
I CEO delle principali aziende europee sono pagati oltre cento volte di più del lavoratore medio: rispecchiando i report OCSE, lo rileva una recentissima analisi dell'European trade union institute. Tra uno stipendio base medio di 1.571.000 euro e bonus fino al 200 per cento dello stipendio, lo scorso anno i CEO delle prime cento società del continente hanno ricevuto una retribuzione media di 4.147.440 euro, rispetto a 37.863 euro per un lavoratore a tempo pieno.
Sulla stessa linea, un'analisi Oxfam - pubblicata emblematicamente il primo maggio - indica che a livello globale, negli ultimi 5 anni la retribuzione mediana degli AD d'impresa è salita del 50 per cento in termini reali, passando da 2,9 milioni di dollari nel 2019 a 4,3 milioni nel 2024. Una crescita che supera di ben 56 volte il lievissimo aumento del salario medio reale (+0,9 per cento), registrato nello stesso periodo negli Stati in cui sono pubblicamente disponibili le cifre dei compensi degli AD.
Non solo. Secondo Oxfam, per la dinamica dei salari reali in Italia, se invece che usare gli indici generali dell'inflazione, si guardasse alla variazione dei prezzi del carrello della spesa, il salario lordo nazionale avrebbe, in media, una perdita cumulata di circa il 15 per cento nel quadriennio 2019-2023.
Ma, al di là delle evidenti responsabilità, capacità e soft skills richieste ad una figura apicale d'azienda, emerge una sproporzione che solleva interrogativi etici, giuridici e politici: chi decide quanto vale il tempo di una persona? E soprattutto, secondo quali criteri? Questa differenza non è solo una questione di numeri, perché rappresenta il segnale di un sistema economico e sociale sbilanciato, di una visione - in qualche modo - ideologica che giustifica e mantiene certi privilegi, indipendentemente dal reale merito o da criteri oggettivi ed equi.
Può definirsi equa, o socialmente sostenibile, una realtà in cui chi lavora 40 ore alla settimana non guadagna abbastanza per vivere dignitosamente - i cosiddetti working poor - mentre altri accumulano in un anno quello che un operaio guadagna in dieci vite? La sproporzione retributiva è il sintomo di un'ingiustizia strutturale, sostenuta da convinzioni culturali o politiche, piuttosto che da una reale logica di giustizia, equilibrio.
Il filosofo statunitense John Rawls, autore della celebre opera A Theory of Justice, sosteneva il rilievo del merito, ma nell'equità. Affrontando il dibattito sulla giustizia distributiva, egli propose due principi fondamentali: il primo tutela le libertà fondamentali e il secondo - noto come principio di differenza - ammette le disuguaglianze, solo se vantaggiose anche per i più svantaggiati. Traslando questo principio nell'odierno mondo del lavoro, si dovrebbe allora dimostrare che i megastipendi dei dirigenti migliorano concretamente le condizioni dei lavoratori a reddito più basso. Ma la domanda sarcastica é: dove sono le prove?
La realtà ci mostra un altro quadro: salari stagnanti, contratti precari, part-time involontari, e una crescente platea di lavoratori sottopagati anche in settori strategici come la sanità, la scuola e la logistica. La teoria di Rawls condanna le disuguaglianze economiche che non migliorano le condizioni delle classi sociali più basse. Le differenze salariali sproporzionate, se non eque né giustificabili in base all'interesse collettivo, violano i principi di giustizia come l'equità. Mentre un sistema giusto deve essere accettabile da tutti, anche senza conoscere il proprio ruolo sociale.
Premio Nobel per l'economia nel 1998, l'economista e filosofo indiano Amartya Sen ha arricchito la riflessione e il dibattito su giustizia e disuguaglianze, invitandoci a guardare non soltanto al reddito, ma alle cosiddette capabilities, ossia le effettive libertà delle persone di condurre la vita che desiderano. Il lavoro povero, anche se dignitoso e formalmente regolare, limita o comprime gravemente tali capacità: chi guadagna troppo poco non può investire in formazione, salute, tempo libero, passioni. È una povertà funzionale che mina la cittadinanza sostanziale, mentre la sproporzione salariale riflette un sistema fondato su privilegi e non su necessità o benefici sociali.
In questo contesto il diritto tace o balbetta? La Costituzione afferma che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” (articolo 35) e che “ogni cittadino ha diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente” (articolo 36). Ma la realtà, al di là dei proclami, è ben diversa. Il nostro Paese è uno dei pochi Stati UE a non avere ancora un salario minimo legale, nonostante le sollecitazioni europee (si pensi alla direttiva UE 2022/2041). Sebbene esistano contratti collettivi, in molti settori vengono firmati da sigle non rappresentative, dando luogo ai famigerati “contratti pirata” con retribuzioni al ribasso e evidenti conseguenze negative in busta paga.
Le politiche di governo non paiono offrire una reale soluzione all'enorme questione della disuguaglianza salariale. Misure come il taglio del cuneo fiscale o i bonus una tantum, a parere di chi scrive, sono meri palliativi o sostegni momentanei – si direbbero quasi orpelli per catturare qualche voto in più – ma di certo non riforme strutturali. Al di là delle considerazioni sulle strategie di questo o quel partito politico, ciò che traspare è non solo una questione economica ma anche un dilemma etico. Coloro che difendono o giustificano le attuali disuguaglianze – teorici liberisti, imprenditori di alto rango, opinionisti conservatori, think tank e le lobby legate a grandi aziende - spesso ricorrono all'argomento meritocratico: i manager si assumono grandi responsabilità, generano valore, prendono decisioni complesse.
Ebbene, questo ragionamento regge solo se non dimentichiamo che il valore generato è il frutto del lavoro collettivo. Senza operai, infermieri, insegnanti, impiegati o autisti, nessun dirigente potrebbe far crescere un'azienda. Ma è la più limpida logica, infine, a suggerirlo. La vera meritocrazia non può ignorare il punto di partenza: non c'è merito senza pari opportunità.
Le istituzioni sono chiamate a dare una risposta, ad esempio introducendo un salario minimo legale omogeneo, adeguato al costo della vita e indicizzato automaticamente all'inflazione, per tutti i settori, contrastando con forza i “contratti pirata”. Altre soluzioni potrebbero essere la detassazione delle retribuzioni più basse o la previsione di incentivi fiscali e accesso facilitato a bandi pubblici per le aziende che mantengono un rapporto retributivo interno (CEO/worker pay ratio) entro un coefficiente prestabilito. Mentre la recente approvazione in Senato del DDL sulla democrazia economica rappresenta un passo avanti verso gli obiettivi di giustizia distributiva, prevedendo la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende.
Siamo uomini e non macchine governate dall'IA e continuando a tollerare una palese disparità salariale, senza chiedersi chi decide il prezzo del tempo degli altri, si perpetua una forma di cecità etica, prima ancora che politica. Forse è davvero arrivato il momento di rispondere alla domanda che brucia dietro ogni busta paga: quanto vale davvero il mio tempo? E chi ha il diritto di stabilirlo?