Negli ultimi anni la moda è approdata nel digitale, generando abiti che vivono esclusivamente online, da skin per avatar ad outfit NFT utilizzati in ambienti virtuali come Fortnite, Roblox o Decentraland. Brand come Balenciaga, Gucci, Ralph Lauren e Nike hanno lanciato collezioni native digitali o siglato partnership con piattaforme di gaming e metaverso, mentre startup come The Fabricant o DressX vendono capi in realtà aumentata utilizzabili solo in ambienti digitali o come “filtri” per contenuti social. Questo nuovo scenario, nonostante l’entusiasmo creativo e commerciale, solleva questioni giuridiche fondamentali: chi possiede i diritti su un abito digitale? In che misura è tutelabile? E quali sono i limiti contrattuali e normativi entro cui questi oggetti possono circolare?
Fino al 2024, la normativa europea sul design (Reg. CE n. 6/2002 e Direttiva 98/71/CE) non menzionava esplicitamente i prodotti digitali tra gli oggetti tutelabili. Tuttavia, il Regolamento (UE) 2024/2822, in vigore dal 1° maggio 2025, ha ampliato in modo significativo la definizione di “prodotto” includendo anche le rappresentazioni digitali tridimensionali, interfacce grafiche, prodotti virtuali e ambienti immersivi. È ora possibile, a pieno titolo, registrare come design industriale un file 3D rappresentante un abito o accessorio digitale, a condizione che esso presenti novità e carattere individuale, secondo i criteri generali di cui agli articoli 4 e 6 del Regolamento.
A titolo esemplificativo, sono già stati depositati presso l’EUIPO design 3D di capi digitali riconducibili a progetti di moda immersiva: tra questi, alcuni elementi della collezione “Leela” di The Fabricant, i look virtuali di RTFKT Studios (oggi di proprietà Nike), o modelli registrati da stilisti indipendenti per abiti esclusivamente NFT-ready. Queste registrazioni permettono al titolare di vietare l’uso non autorizzato del design, anche se non materialmente realizzato, e di opporsi alla stampa 3D, duplicazione o utilizzo in ambienti virtuali in cui non sia stato concesso un diritto di licenza.
Dal punto di vista contrattuale, la circolazione di questi oggetti avviene generalmente tramite licenze digitali d’uso. Quando un utente acquista un capo digitale, ad esempio su piattaforme come DressX o UNXD, non riceve la proprietà del file in senso civilistico, ma una licenza (spesso non esclusiva, non trasferibile e limitata all’uso su determinati avatar, social o ambienti di realtà aumentata). I termini di servizio delle piattaforme stabiliscono in modo dettagliato che l’utente non può modificare, rivendere, né utilizzare in contesti diversi da quelli autorizzati. Queste condizioni sono vincolanti ai sensi della normativa europea sui contratti digitali (Dir. UE 2019/770, recepita in Italia con Dlgs n. 173/2021), ma possono talvolta essere soggette a squilibri, specie nei confronti di utenti-consumatori non professionali.
Un caso emblematico in tal senso è il contenzioso “Hermès International v. Rothschild”, presso il Tribunale del Distretto Sud di New York, deciso nel febbraio 2023. L’artista Mason Rothschild aveva creato una serie di NFT chiamata “MetaBirkins”, raffigurante borse digitali ispirate alle iconiche Birkin, accompagnate da smart contract su blockchain Ethereum. Hermès ha ottenuto un verdetto favorevole, dimostrando che l’uso del nome e dell’immagine delle borse, anche se digitali, violava il proprio marchio registrato. Il Tribunale, aprendo la strada a un’applicazione estensiva delle norme sul trademark anche nel metaverso, ha ritenuto che l’uso parodico o artistico non giustificasse lo sfruttamento commerciale indebito di un segno distintivo così noto.
Più recentemente, nel caso “Nike v. StockX”, il colosso americano ha avviato un’azione per impedire alla piattaforma di rivendita di vendere immagini tokenizzate (NFT) delle sue scarpe, contestando la legittimità del legame tra immagine digitale e oggetto fisico, nonostante StockX sostenesse che si trattasse di un semplice strumento di tracciabilità. Anche qui, il nodo è il rapporto tra la titolarità dell’immagine del prodotto e l’uso digitale (commerciale o certificativo) che ne viene fatto.
La questione si complica ulteriormente con i design generati da intelligenza artificiale. Se un abito digitale è stato creato interamente o in parte da un software AI, il diritto d’autore europeo, come confermato anche dalla Comunicazione della Commissione UE del 19 febbraio 2024 sulla proprietà intellettuale e AI, riconosce tutela solo a condizione che vi sia un apporto creativo umano rilevante. In caso contrario, l’opera potrebbe essere considerata “non tutelabile”, e dunque non proteggibile né come opera dell’ingegno né come design.
Tuttavia, anche in questi casi, la registrazione come design industriale ex Regolamento 2024/2822 resta possibile, a condizione che il soggetto richiedente si assuma la titolarità dell’insieme grafico depositato. In altre parole, l’origine automatizzata non esclude la registrazione, ma potrebbe limitare la possibilità di difendere il design in caso di contestazione sulla paternità creativa. Questo apre un ulteriore fronte interpretativo che coinvolge anche le policy dell’EUIPO, chiamato nei prossimi mesi a pubblicare linee guida sull’ammissibilità delle domande contenenti elementi generati da AI.
Nel frattempo, le maison più strutturate hanno cominciato a reagire. Louis Vuitton, Gucci, Prada e Valentino hanno già registrato marchi in classe 9 (prodotti software) e 42 (sviluppo software) per prodotti digitali e ambienti virtuali. Alcuni brand hanno stipulato accordi con architetti digitali per lo sviluppo di look NFT-ready, prevedendo contratti di licenza e cessione dei diritti 3D. Altri, come Adidas o Diesel, hanno avviato marketplace interni dove i capi digitali sono venduti insieme a quelli fisici, con una strategia di “gemellaggio” che permette di legare NFT e abito reale.
In sintesi, la riforma europea del design ha introdotto strumenti nuovi e promettenti per la protezione della moda digitale, consentendo ai brand di registrare legalmente anche i file in 3D come design. Ma restano ancora molte aree grigie: i diritti reali sul file, la validità delle licenze d’uso, le eccezioni artistiche e la rilevanza del contributo umano nella creazione. In questo contesto, la sfida per il diritto è duplice: da un lato, offrire tutela efficace contro abusi e contraffazioni; dall’altro, non soffocare la sperimentazione creativa che caratterizza questo nuovo ecosistema estetico.
Nel metaverso, come nella moda, ciò che conta non è solo chi possiede l’oggetto, ma chi ha il potere di narrarlo, valorizzarlo, renderlo esclusivo. E quel potere passa, oggi più che mai, attraverso un equilibrio instabile tra diritti, contratti e immaginazione.
La possibilità di registrare file digitali tridimensionali come design rappresenta un passo decisivo verso il riconoscimento giuridico di una creatività che ormai non si esprime più solo nella materia. Tuttavia, la tutela legale resta condizionata da numerosi fattori: la riconoscibilità dell’autore umano, la chiarezza dei contratti di licenza, la compatibilità con le infrastrutture tecniche delle piattaforme, l’effettività delle misure di enforcement in ambienti decentralizzati. A ciò si aggiunge l’asimmetria tra grandi marchi, in grado di strutturarsi legalmente per presidiare il digitale, e creativi emergenti, spesso privi degli strumenti per tutelare le proprie opere da copie, remix o appropriazioni indebite.
Il diritto si trova così a dover colmare un duplice divario: da un lato, tra innovazione tecnologica e sistemi normativi pensati per un mondo materiale; dall’altro, tra la logica dell’esclusività, tipica del lusso, e l’orizzontalità radicale dell’ambiente digitale, dove tutto è, almeno in apparenza, accessibile, replicabile, diffondibile. La sfida sarà capire come costruire una tutela che non si limiti a trasporre modelli giuridici preesistenti, ma sappia interpretare la natura ibrida e relazionale del design digitale.
In questo nuovo scenario, i capi virtuali non sono solo oggetti, ma portatori di dati, identità, storie. Sono codici indossabili che si inseriscono nel circuito dell’economia simbolica e che, come tali, vanno considerati anche sul piano giuridico. Chi possiede un capo digitale? Chi può modificarlo, rivenderlo, archiviarlo, esibirlo? E cosa succede se quell’oggetto è stato generato da una macchina, o se la sua diffusione avviene in ambienti non sottoposti a giurisdizione certa?
Sono domande aperte, che mostrano come la moda digitale non sia soltanto una nuova tendenza commerciale, ma un banco di prova per il diritto e per le categorie stesse di proprietà, originalità e autenticità. In un mondo dove la copia non è più una deviazione ma una forma di esistenza autonoma, proteggere la creatività non significa più soltanto recintarla, ma saperne tracciare i contorni, legali, simbolici, culturali, anche quando non ha peso, tessuto né cuciture.