“Se non si può misurare qualcosa, non si può migliorarla”. Il famoso incipit di Lord Kelvin pare proprio cadere a fagiolo nell’attuale situazione che, in primis in Europa, sta avvenendo circa le modalità con le quali le imprese vengono valutate secondo i criteri ESG.
Un po’ di storia
ESG, acronimo di Environmental, Social, Governance, rappresenta il fattore centrale nella valutazione della sostenibilità di un’impresa, valutata appunto per il suo impatto ambientale, le relazioni con i propri stakeholder e la bontà del suo modello organizzativo e direzionale. Se il termine ESG risale ad una iniziativa delle Nazioni Unite di circa 20 anni fa, che sollecitava ad integrare i fattori di sostenibilità nei mercati finanziari riprendendo i più datati SRI, non si può negare che il suo hype mondiale sia attribuibile ad una precisa persona: Larry Fink. A chi non segue la finanza questo è forse un nome sconosciuto, ma per chi anche superficialmente bazzica gli ambienti economici sa che trattasi del CEO di BlackRock, il fondo di investimento che gestisce una massa monetaria pari alla somma dei PIL di Germania e Giappone. Ecco che, se il dottor Fink nella sua annuale ed attesissima lettera agli investitori inizia, verso la seconda decade di questo secolo, a insistere sul fatto che per loro i criteri ESG diventano cruciali nelle decisioni di investimento, l’effetto emulazione esplode sui mercati finanziari.
Le conseguenze
Dall’irruzione del fenomeno ESG sui mercati finanziari in poi è successo un po’ di tutto: dalla corsa a “rebrandizzare” gli strumenti di investimento, all’inseguire titoli e certificazioni di ogni genere da esporre al mercato per esibire il proprio pedigree green. Sia ben chiaro, è innegabile come l’ondata ESG abbia sensibilizzato le aziende ad accorgersi della propria componente non finanziaria, un elemento perlopiù intangibile che però, come è noto nell’economia moderna, determina gran parte del vantaggio competitivo di un’impresa. Detto questo però, tornando al già citato Lord Kelvin, ciò che non ha retto il passo è stato l’apparente disinteresse (probabilmente interessato) sul come misurare un’impresa o un investimento sotto il profilo ESG. O forse proprio l’opposto, a ben pensarci, nel senso che l’assenza di una guida, di uno standard, ha permesso ad ognuno dapprima di autocertificarsi il proprio e, in un secondo momento, con le diverse offerte di servizi di rating ESG, di scegliere quella più vantaggiosa. Ecco che, se tutto può essere sostenibile, alla fine può valere pure il contrario, fattore che rischia di minare la credibilità di un intero sistema, orfano di trasparenza ed oggettività.
Le reazioni
Le risposte alla situazione venutasi a creare sono state assai diverse fra Europa, USA ed Asia. In ambito Europeo la direttiva più nota ed esaustiva, la CSRD, già da quest’anno diviene obbligatoria per le Grandi Imprese di Interesse Pubblico già soggette alla NFRD (che già le obbligava ad una sommaria informativa di carattere non finanziario). Dal 2026 tutte le Grandi Imprese, dal 2027-2028 le PMI quotate, chiudono nel 2029 le imprese extra UE con filiali in Europa che fatturano più di 150 milioni di Euro. Si stima che già quest’anno 50.000 imprese europee si troveranno ad affrontare la CSRD. C’è poi la CSDD che impegnerà le imprese in una vera e propria Due Diligence delle proprie catene di fornitura, certificandone la compliance nell’adozione di buone pratiche. Avrà effetto dal 2027 per le Grandi Imprese mentre le PMI di settori a rischio dal 2029.
C’è poi la FLR che dal 2027 impegnerà i singoli stati ad investigare su sospetti di utilizzo di lavoro forzato nelle catene di subfornitura delle imprese.
Da ultimo citiamo la GCD introdotta per proteggere i consumatori e le aziende dalle pratiche ingannevoli del greenwashing. Una progettualità, quindi, che vincolerà la comunicazione green all’adozione del Life Cycle Assessment (LCA), metodo atto a validare l’impatto ambientale di prodotti e processi. Al di là dell’Atlantico, negli USA, la situazione è molto diversa e, in particolare con l’avvento di Trump, in deciso divenire.
A livello federale, la SEC (ente federale che vigila sui mercati finanziari) studia la Climate Disclosure Rule che obbligherebbe le quotate a informare il mercato circa il loro impatto climatico.
Il resto è demandato ai singoli Stati: da un lato la California, autrice di diverse direttive su energie rinnovabili e supply chain, dall’altro il Texas, dove l’industria del petrolio o delle armi si contrappone ad ogni regolamentazione. Infine l’Asia che oggi significa in particolare Cina, dove una recente indagine di JP Morgan ha definito largamente insufficiente l’informativa ESG adottata in primis a livello istituzionale. Strada lunga e tortuosa quindi
L’Italia
Nel nostro Paese, ovviamente coinvolto nelle direttive UE, merita menzione la recente presa di posizione dell’ABI (Associazione Banche Italiane) che si è smarcata pubblicamente dal ruolo di “analista ESG” che le banche hanno sino ad oggi ricoperto, invocando un’entità certificatrice sovraordinata. Gli istituti di credito, infatti, da qualche anno, ognuno con i propri strumenti, valutano i punteggi di merito ESG delle imprese di ogni dimensione per erogare finanziamenti o riconoscere affidamenti, in particolare per poter a loro volta migliorare i loro indicatori di solidità. Alla necessità di poter contare su uno scoring sintetico e confrontabile l’Europa ha previsto un Albo delle agenzie di rating ESG, enti terzi in grado di fornire punteggi oggettivi e super partes.
Un quadro, in definitiva, eterogeneo su base geografica con il rischio, però, di trovarsi a competere sui mercati internazionali, dovendo sottostare a regole profondamente diverse. Come se non bastasse, si aggiunge il pericolo concreto di vedere vanificato ogni sforzo di chi, pur con percorsi tortuosi ma ispirati da elementi oggettivi e virtuosi, l’”onere” di misurare la sostenibilità se lo pone.