Quando una donna resta incinta, troppo spesso in azienda scatta l’allerta: “E ora? Come faremo a sostituirla?”. Non perché insostituibile – sarcasticamente, ovvio - ma perchè in Italia la maternità rappresenta spesso un costo non sostenibile, per le piccole e medie imprese.
L’indignazione sulla questione di genere al riguardo (ma perché i figli non sono pure dei padri?!) è tutt’altro che da fare passare in secondo piano, ma la visione aziendale poggia su basi reali. Le imprese italiane, soprattutto piccole e medie, faticano a reggere i costi diretti e indiretti della maternità.
Sebbene una parte dell’assenza sia coperta a livello statale, la gestione quotidiana della dipendente diventa comunque più complessa. La nascita di un figlio nei primi anni di vita comporta maggiori assenze, minore disponibilità oraria e, spesso, una riduzione fisiologica del focus lavorativo (quindi minore produttività).
Per un’azienda, il “costo dipendente” in Italia è già elevato: se a questo si sommano periodi di congedo, assenze per malattia dei figli o richieste di flessibilità, l’impatto economico e organizzativo diventa difficile da sostenere. Qualche dato: ipotizzando una RAL di 30.000 euro all’anno (una media nazionale attendibile per ruoli impiegatizi), l’azienda paga effettivamente 40.000-41.000 euro all’anno, circa il 32-35% in più tra contributi Inps, Inail, Tfr.
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