Ma davvero il Pvc può giustificare la sospensione dei rimborsi? (con postilla di Dario Deotto)
di Andrea Gaeta
In occasione di “Telefisco 2025”, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che anche in presenza di un processo verbale di constatazione l’ufficio può provvedere alla sospensione del rimborso Iva.
La norma di riferimento è l’articolo 23 del Dlgs n. 472/1997, il quale dispone che l’erogazione di un rimborso può essere sospesa «se è stato notificato atto di contestazione o di irrogazione della sanzione o provvedimento con il quale vengono accertati maggiori tributi, ancorché non definitivi. La sospensione opera nei limiti di tutti gli importi dovuti in base all'atto o alla decisione della commissione tributaria ovvero dalla decisione di altro organo».
Il “blocco” è un provvedimento impugnabile di cui (caso unico tra i provvedimenti cd. negativi) è espressamente prevista la possibilità di sospensione giudiziale (naturalmente previa dimostrazione, da parte del ricorrente, dei consueti requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora).
Non di rado, tuttavia, gli uffici, nonostante il chiaro disposto dell’articolo 23 in questione, dispongono la sospensione dei rimborsi anche in presenza di processi verbali di constatazione, che vengono equiparati a dei “carichi pendenti”. Tale modus agendi viene “rivendicato” dall’Agenzia, anche in occasione di Telefisco, in base ad una vecchia circolare, la n. 19/E/1993, nella quale si legge che «nel concetto di carico pendente rientrano gli accertamenti, le rettifiche, le irrogazioni di sanzioni, i processi verbali notificati e ogni altra pendenza risultante dalle informazioni dell'Anagrafe Tributaria o da altri elementi esistenti in ufficio» per i quali, a norma dell’articolo 69, RD n. 2440/1923, è prevista la sospensione del pagamento.
Com’è evidente – è inutile girarci attorno – la prassi dell’Agenzia si pone in aperto contrasto con la legge, che dal 1997 richiede chiaramente, affinché sia sospeso il rimborso, che siano emessi atti di contestazione/irrogazione delle sanzioni o (dal 2015) avvisi di accertamento di maggiori tributi.
L’interpretazione dell’Agenzia assimila di fatto il p.v.c. a un atto impositivo. Eppure, com’è noto, il p.v.c. è l’atto che compendia i risultati di un’attività istruttoria, e null’altro: esso può tutt’al più giustificare la richiesta di misure cautelari a norma dell’articolo 22 dello stesso Dlgs n. 472/1997, che viene autorizzata dal Giudice con sentenza e in contraddittorio con il contribuente, e non è perciò assimilabile a un atto di “autotutela esecutiva”. Oltretutto, l’articolo 22 prevede che la misura cautelare concessa in base al p.v.c. perda efficacia se, entro 120 giorni dalla sentenza, non viene emesso l’avviso di accertamento. Ciò dimostra, ancora una volta, la strumentalità del p.v.c. rispetto all’atto di accertamento, ossia il provvedimento da cui dipende la sorte del rimborso.
La posizione dell’Agenzia risulta infondata anche per un argomento di carattere “storico”.
Prima dell’attuale formulazione dell’articolo 23 del Dlgs 472/1997, infatti, la sospensione era consentita soltanto in presenza di atti di contestazione e di irrogazione sanzioni, mentre l’aggiunta dell’avviso di accertamento come presupposto per la misura cautelare si deve al Dlgs n. 158/2015. È evidente, però, che, se il legislatore della riforma del 2015 avesse davvero voluto accentuare il carattere “cautelare” della sospensione nella direzione auspicata dall’Amministrazione, avrebbe senz’altro inserito anche il p.v.c. tra gli atti che legittimano la sospensione; eppure, non lo ha fatto.
Ancora, l’articolo 23 in commento viene riprodotto tal quale (con la sola sostituzione della “commissione tributaria” con la “corte di giustizia tributaria”) nel nuovo Testo Unico delle sanzioni che entrerà in vigore il 1° gennaio 2026 (si veda l’articolo 24 del Dlgs n. 173/2024). Anche in questo caso, si è persa – deve ritenersi, intenzionalmente o quantomeno consapevolmente – un’altra occasione per modificare la norma.
Inoltre, non sembra nemmeno corretto evocare l’istituto generale del fermo amministrativo di cui all’articolo 69, comma 6, RD n. 2440/1923 («qualora un'amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo, ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo»).
Ciò per due evidenti ragioni.
In primo luogo, l’articolo 23 del Dlgs n. 472/1997 risulta sia successivo che speciale rispetto al regolamento sulla contabilità dello Stato, sul quale, quindi, è destinato a prevalere.
In secondo luogo, il fermo richiede che, a fronte di un unico debitore, vi siano due Amministrazioni coinvolte: una quale debitrice, e una quale creditrice. La struttura “trilaterale” trova conferma nella circolare n. 21/1999 dell’allora Ministero del Tesoro, ove si legge che «il fermo amministrativo dovrebbe scontare i seguenti presupposti: […] c) l’Amministrazione creditrice dev’essere diversa da quella debitrice».
Le affermazioni dell’Agenzia, in conclusione, non sono affatto condivisibili, perché l’assimilazione del p.v.c. a un “carico pendente” è contraddetta dalle norme in vigore, e, come si è rappresentato, non è nemmeno possibile richiamare l’istituto del fermo amministrativo.
Postilla: la “solita” supremazia della prassi
Personalmente ho sempre “denunciato” la dilagante supremazia della prassi, caratteristica, questa, tutta italica. In molteplici occasioni ho cercato di spiegarne le cause. Una, tra le tante, è da attribuirsi anche al “mondo” della pubblicistica, il più delle volte “appiattito” sui pronunciamenti della stessa prassi o, comunque, all’enfasi che viene data (dallo stesso “mondo”) a qualsiasi “sospiro” dell’Agenzia.
Non stupiamoci, dunque, che la medesima Amministrazione risponda che anche il Pvc blocca i rimborsi. Anche se la legge – questo fastidioso “orpello” – dice chiaramente di no. (D.D.)