L’organizzazione invisibile: il 231 tra potere silenzioso e cultura d’impresa
di Nicola Lorenzini
C’è un paradosso che pochi colgono: un Modello 231 “troppo preciso” è spesso la sua rovina. E poco importa se quel modello viene giudicato generico da qualche giudice: è proprio la genericità che ne costituisce la forza strutturale.
Lo sostiene, con fermezza, la Cassazione nella sentenza n. 30039/2025.
Nel caso di un tragico incidente in raffineria, la Suprema Corte ha annullato la condanna dell’ente affermando che non si può condannare un modello per “essere generico”: un errore sostanziale sarebbe pretendere che il Modello entri nei dettagli tecnici — e così tradisca la propria funzione.
Ma lo spunto va oltre la mera disputa normativa: apre a una visione d’azienda come organismo vivo, capace di trasformare l’adempimento in opportunità di crescere il valore della stessa.
In questo racconto voglio spingere lo sguardo su ciò che non si vede — cultura, valori, leadership — e mostrare come essi siano oggi il vero scudo e motore delle imprese che durano.
Il Modello 231: quadro generale, non manuale operativo
Il D.lgs. 231/2001 mette un obbligo chiaro: le aziende devono dotarsi di un “modello di organizzazione, gestione e controllo” (MOG) efficace per prevenire reati.
Ma la legge stessa non prescrive minuziosamente come impostarlo; delega a codici etici, procedure generali e a un organismo di vigilanza indipendente.
La Cassazione 30039/2025 ribadisce un principio cruciale: il MOG non deve — e non può — entrare nelle istruzioni tecniche di dettaglio.
Deve restare al livello della governance: chi risponde a chi, come fluiscono le informazioni, quali principi etici sorreggono le decisioni.
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