Dal “linguaggio” letterario o filosofico ma anche scientifico, tecnico o giuridico, questa parola interessa fondamentalmente gran parte degli ambiti in cui operiamo, ma può riguardare anche altri contesti, come ad esempio quello del mondo animale, in riferimento proprio alla vasta gamma di sistemi comunicativi e di interazione, utilizzati da specie distinte.
L’etimologia del termine ha le sue radici nel latino lingua.
Il “linguaggio” rappresenta dunque lo strumento atto alla comunicazione.
Tale termine viene più ampiamente inteso come la speciale facoltà dell’essere umano di comunicare – dando informazioni sulla realtà che ci circonda, ma anche in relazione al trasmettere i propri pensieri e il proprio stato d’animo interiore – attraverso l’emissione vocale di parole o la loro produzione scritta.
Non va ulteriormente dimenticato che, le persone con disabilità uditiva e tutta la “comunità sorda segnante”, impiegano un tipo di “linguaggio” che si serve di una complessa comunicazione gestuale. In Italia, in tale ambito, viene utilizzata la “Lingua dei Segni Italiana” (LIS) che utilizza un sistema codificato di segni manuali, espressioni del volto e movimenti del corpo, con cui esprimere efficacemente concetti di senso compiuto.
Nel corso dei secoli e progressivamente, passando da quello orale anche a quello scritto, il “linguaggio” verbale ha continuato a svilupparsi in “lingue” distinte, con suoni e strutture difformi, ma in cui la capacità comunicativa rimane costante, pur modificandosi e successivamente evolvendosi con il trascorrere del tempo, per risultare più aderente ai cambiamenti della società.
Un “linguaggio” funzionale, in rapporto con la realtà del presente, avrebbe quindi il compito di facilitare la comunicazione. È evidente però che il rischio di “perdere per strada” alcuni pezzi importanti del nostro vissuto storico, culturale, ma anche emotivo, non andrebbe trascurato. Difatti, nel marasma della facilitazione “linguistica”, la perdita progressiva della “lingua” madre sembrerebbe effettivamente concreta. Vero è che sempre più neologismi di importazione straniera vanno ad inserirsi in tutti i contesti di vita quotidiana e del mondo lavorativo.
Probabilmente, la mancanza di comprensione rispetto a ciò che andrebbe inevitabilmente perso, insieme alla perdita della nostra “lingua” d’origine, fa sì che questo problema venga sottovalutato al punto, forse, da considerare “incapaci” di adeguarsi ai cambiamenti globali persone che vorrebbero salvaguardare la propria “lingua”, al fine di mantenerne i tratti caratterizzanti e conservarne al contempo l’intrinseco patrimonio culturale.
Nella nostra penisola, anche la varietà e ricchezza dei differenti “linguaggi” dialettali è tale da poter abbracciare contesti storici di millenni. Eppure, in un lasso di tempo sempre più breve, si sta abbandonando l’uso di queste forme idiomatiche come di un qualcosa da dover dimenticare. Il dialetto invece esprimerebbe il legame più profondo e radicato della sfera emotiva di ognuno di noi, un posto speciale in seno all’animo umano, l’unione con la naturale ed istintiva parte dell’io più intimo.
Renzo Bottin, insegnante e stimato esperto di dialettologia, autore del libro “Al graisan” (vocabolario e grammatica del dialetto parlato nell’isola di Grado), attraverso una ricerca di alcuni decenni, illustra le particolarità di questo specifico dialetto – partendo dalle origini storiche e “linguistiche”, con accenno alla sua evoluzione avvenuta inizialmente in un contesto isolato – spiegandone le caratteristiche grammaticali e terminologiche.
In una sua successiva analisi sulle diverse ragioni collegate all’abbandono dell’uso dei dialetti, lo studioso sottolinea come la sudditanza socioeconomica e “linguistica” verso paesi più potenti, possa causare ulteriormente la progressiva cancellazione dei “linguaggi” considerati minoritari, con il rischio di uniformare anche il pensiero politico delle nazioni.
L’autore guarda alle modificazioni del dialetto scrivendo «… noi vediamo sfilarci davanti agli occhi più di 2000 anni della nostra storia e della nostra cultura ed a queste radici dobbiamo aggrapparci affinché questa forma di testimonianza possa continuare e non accada che “In prinsipio gera la parola… (In principio c’era la parola...)” diventi “pidgin English”».