Le contestazioni in materia di esterovestizione tributaria, sempre più oggetto dell’attività di verifica e controllo da parte dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza, si basano sull’accertamento di una situazione di fatto; in concreto, i verificatori, dalla documentazione e dalle informazioni generalmente rinvenute presso la casa madre, desumono la eterodirezione del soggetto estero. Tali contestazioni riguardano anche soggetti che all’estero esercitano una effettiva attività d’impresa, mediante strutture, impianti e dipendenti dedicati ad essa ma che (tuttavia) hanno, per la maggior parte del periodo di imposta, la sede di direzione effettiva e/o la gestione ordinaria in Italia, laddove, ai sensi dell’articolo 83 TUIR, per sede di direzione effettiva si intende “la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società nel suo complesso”. Criterio della “sede di direzione effettiva” che deve tenere anche conto delle previsioni in tema di convenzioni internazionali italiane in vigore
Nell’ambito di queste attività di verifica e controllo, a nulla rileva la circostanza che non sussista una fittizia attività localizzata all’estero (cd. costruzione di puro artificio) e che il soggetto ivi possieda invece un reale insediamento produttivo, in quanto, se risulta dimostrata la eccessiva ingerenza della case madre italiana nell’attività del soggetto estero, la contestazione di esterovestizione tributaria della società costituita al di fuori del territorio nazionale è comunque portata avanti dagli organi competenti.
Rileva quindi la sede di direzione effettiva: secondo la decisione della Suprema Corte (Cass., ordinanza del 28 gennaio 2014, n. 1813), per aversi sede effettiva “non è sufficiente che in un determinato luogo la società abbia uno stabilimento, paghi gli stipendi ed i salari ai propri dipendenti, riceva le merci e consegni i manufatti (Cass. 2187/83), essendo, invece, necessario che in esso sito si accentrino di fatto i poteri di direzione e di amministrazione dell’azienda stessa, anche ove esso diverga da quello in cui si trovano i beni aziendali e nel quale viene svolta l’attività imprenditoriale”.
Ancora, la Corte di Cassazione (sentenza del 7 febbraio 2013, n. 2869) ha precisato che la determinazione del luogo della sede dell’attività economica di una società implica la presa in considerazione di un complesso di fattori, tra i quali la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale della società; possono pure essere presi in considerazione altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e lo svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie.
Assonime (circolare n. 15 del 2024) ha recentemente affermato che il livello decisionale di riferimento della sede di direzione effettiva è da individuare nell’intero top level di governance della società chiamato ad assumersi in modo coordinato e continuo la responsabilità per le key decisions relative all’ente nel suo complesso e che, pertanto, comprende il livello apicale dei membri executive o non executive del Consiglio di amministrazione (o dell’amministratore unico), il Presidente e il Vice Presidente nonché l’Amministratore delegato.
La sede di direzione effettiva non può coincidere con il luogo in cui vengono assunte le decisioni di direzione e coordinamento del gruppo, ma ciò che rileva è il luogo in cui vengono assunte le decisioni relative all’amministrazione della società controllata, ovvero il luogo dove vengono prese le decisioni sulla strategia generale e le decisioni rilevanti relative alla società nel suo complesso.
Il confine è quindi fra il “naturale” rapporto che si instaura tra controllata estera e casa madre italiana che svolge mera attività di direzione e coordinamento e ciò che invece, in modo più invasivo, configura eterodirezione: si tratta di un confine che si considera superato o meno a seconda dei dati fattuali riscontrabili.
Seguendo questo indirizzo, il diverso filone interpretativo che riconduce la esterovestizione tributaria fra le fattispecie abusive non ha ovviamente cittadinanza; l’abuso del diritto – che guarda alla fittizia localizzazione della residenza fiscale di una persona giuridica all’estero, in particolare in Paesi che offrono un trattamento fiscale più vantaggioso rispetto a quello nazionale – non rileva. Ciò che assume rilevanza è invece la sola ricorrenza degli elementi di radicamento della residenza in Italia, nell’ottica di una corretta ripartizione fra Stati della potestà impositiva sui redditi delle attività transnazionali derivante dall’accertamento di una situazione di fatto cui è collegato il presupposto impositivo.
Si prescinde, dunque, dalla finalità abusiva dell’insediamento all’estero e dall’eventuale correlato vantaggio fiscale; semmai l’assenza di un vantaggio fiscale può essere di ausilio nel contrastare la rilevanza penale per gli amministratori dell’omessa presentazione della dichiarazione della entità estera al superamento delle soglie di materialità previste dall’articolo 5, Dlgs. n. 74/2000.