C’è un istante preciso, noto a ogni commercialista, in cui la routine dello studio si incrina. Un collaboratore entra in silenzio, con un fascicolo in mano e un’ombra negli occhi: è il momento in cui si è scoperto un errore.
Non è un evento eccezionale, non è la crepa di un sistema difettoso, ma la manifestazione fisiologica di ciò che è il commercialista: un professionista immerso in un perimetro normativo sterminato, mutevole, talvolta contraddittorio, in cui la perfezione non è esigibile. Non oggi. Non mai.
L’errore, nel lavoro del commercialista, non è una deviazione ma una presenza strutturale, quasi inevitabile.
Persino il legislatore, di fronte alla pressione delle grandi banche, ha dovuto prendere atto della realtà introducendo la norma sulla correzione degli errori contabili: se istituti dotati di reparti compliance, risk management e software avanzati presentano una, due, tre dichiarazioni integrative, come si può pensare che il commercialista, con responsabilità trasversali e tempistiche impossibili, possa garantire l’infallibilità?
Non è una domanda di stile: è il sistema stesso che rende impossibile l’infallibilità.
Il peso umano di dire la verità
Quando un errore emerge, la prima reazione non è tecnica: è emotiva. È il senso di responsabilità che schiaccia, il dubbio, la ricerca febbrile del rimedio, dell’impatto in termini di sanzioni, dei rischi. Se l’errore è di portata notevole, la notte la si passa spesso in bianco.
Poi arriva il momento più difficile: comunicarlo al cliente.
È un passaggio che conosco bene. Negli anni ho visto professionisti, che della pareristica hanno fatto la propria attività professionale principale, rispondere a centinaia di quesiti di commercialisti che chiedevano: “Ho sbagliato? È grave? Si può rimediare? Possiamo provare a far passare il principio che…?
Domande che non nascono mai dalla sicurezza, ma sempre da quella percezione interiore — lucidissima — che qualcosa non torni.
Dunque, “come lo dico al cliente?”
Un attimo prima di questo momento chi risponde al quesito dando la ferale notizia al collega si trova a vivere lo stesso dramma del medico che deve comunicare al paziente una diagnosi pesante: serve mestiere, sangue freddo, lucidità, e un minimo di distacco professionale: purtroppo l’errore c’è e non c’è modo di rimediare senza danni!
Quante volte, nei lunghi anni in cui sono stato dipendente dell’amministrazione finanziaria, mi è capitato di ricevere imprenditori accompagnati dal proprio commercialista, in cerca di una “benedizione” su un accertamento in corso, frutto di una presa di posizione dell’organo di controllo. Non si trattava di evasori che avevano nascosto ricavi o si erano “messi soldi in tasca”. Non avevano costruito schemi elusivi. Non mancavano di documenti essenziali: avevano il visto di conformità, le relazioni illustrative, tutti gli adempimenti richiesti. No: semplicemente, magari, avevano dimenticato di barrare una casella.
È possibile che, dopo investimenti da milioni di euro, per una casella non barrata si debbano pagare imposte, sanzioni e interessi? Ebbene, all’esito dell’incontro, la risposta — triste, ingiusta, disumana — era sempre la stessa: “Purtroppo non si può far nulla, se non andare in contenzioso.” E in cuor mio ho sperato ogni volta che il contribuente avesse la meglio, perché la sproporzione tra l’errore formale e la pretesa erariale era evidente.
Reazioni: il cliente consapevole e il cliente punitivo
Il cliente, di fronte al suo consulente che gli comunica con rammarico e ovviamente imbarazzo l’errore, si divide in due categorie:
Il cliente consapevole, che comprende la complessità del lavoro del commercialista, valuta il danno, collabora alla soluzione e non incrina il rapporto fiduciario.
Il cliente punitivo, che interpreta l’errore come marchio d’incompetenza e che, convinto di trovare un professionista infallibile, se ne va altrove. Illuso: non ha ancora capito che il parametro non è “chi non sbaglia”, ma “chi sbaglia meno e sa gestire l’errore”.
Il vero incubo: l’errore seriale
Il momento più duro della vita professionale non è l’errore isolato, ma quello seriale. Quando ci si accorge che non riguarda un singolo cliente, ma dieci, venti, cinquanta.
È allora che cadono tutte le narrazioni consolatorie.
· Errore concettuale?
· Interpretazione borderline?
· Procedura sbagliata?
· Automatismo gestionale?
Qualunque ne sia la causa, l’effetto è devastante.
E qui si deve dire la verità che nessuno ha il coraggio di pronunciare: il titolare, anche se depositario della conoscenza normativa, ammesso e assolutamente non concesso che sia in grado di gestire l’intera materia contabile, fiscale, societaria, non può controllare ogni singola operazione e ogni foglio o email che esce dal proprio studio.
Può formare, può istituire procedure, può vigilare, ma non può presidiare ogni riga, ogni partita, ogni registrazione. Negare questo è mera teoria da convegno, non realtà di studio professionale.
Il sistema che produce errore
Il sistema fiscale italiano è costruito per generare incertezza:
norme che si sovrappongono a norme mai abrogate;
prassi che contraddicono circolari;
interpelli che smentiscono quelli precedenti, anche a distanza di poco tempo;
istruzioni dei modelli dichiarativi che diventano romanzi di quasi 300 pagine.
Il superbonus, da questo punto di vista, è stato un emblematico laboratorio di incertezza applicativa, con punte di drammaticità interpretativa difficili persino da raccontare.
In un tale contesto, pretendere l’infallibilità del commercialista non è solo irragionevole: è intellettualmente disonesto, ed è l’atteggiamento tipico dei più presuntuosi — spesso proprio quelli che della materia capiscono meno.
La frase che gira negli uffici: “i commercialisti non studiano”
Non si può ignorare anche un fatto: nelle stanze di una parte dell’amministrazione finanziaria circola ancora – con leggerezza imbarazzante — il mantra secondo cui “i commercialisti non studiano.”
È un’affermazione che rivela più l’ignoranza di chi la pronuncia che la verità sulla professione.
Perché chi lavora negli uffici può permettersi di conoscere una norma alla volta, se non un comma alla volta (e starci sopra per mesi) non preoccupandosi di come dovrà essere poi compilato il modello dichiarativo e senza pensare ai connessi adempimenti.
Il commercialista, invece, deve sapere tutto, simultaneamente e tempestivamente, e deve anche applicarlo, dichiararlo, spiegarlo, firmarlo (contabilità, bilanci, iva, redditi, Irap, IMU, TASI, dogane, crediti d’imposta, finanziamenti, gestione del contenzioso…). E se le cose non sono chiare? Attendere istruzioni ufficiali che se arrivano, arrivano magari dopo mesi e talvolta chiariscono molto poco. La questione dei contributi Covid è emblematica: chi l’ha vissuta potrà capire: i famosi contributi “ombrello” (che a pronunciare la parola si pensa ad uno scherzo) il cui funzionamento e comprensione è stato prerogativa di pochi, vale a dire delle poche persone e delle associazioni di categoria che hanno lavorato gomito a gomito con chi ha scritto le norme (nessuna circolare), i quali poi hanno provveduto a informare i propri associati. Solo loro, il resto dei contribuenti lasciati andare alla deriva!
Dire che il commercialista “non studia” è non capire la natura stessa di questo mestiere.
Ed è proprio questa distanza — culturale e cognitiva — tra chi opera nella complessità e chi la giudica dall’esterno a rendere ancora più ingiusto ogni pregiudizio.
Ovviamente, anche nei ranghi dell’amministrazione finanziaria vi sono persone molto preparate e, soprattutto, dotate di buon senso; ma bisogna prendere atto che, all’interno della macchina normativa e interpretativa, queste figure talvolta finiscono per essere diluite, depotenziate, spesso non ascoltate, schiacciate e talvolta sacrificate per superiori esigenze di gettito o per input pervenuti dall’alto (con premessa che non sempre i piani alti coincidono con quello che è l’immaginario collettivo, perché magari si tratta di un piano terra) con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. L’Amministrazione finanziaria è una macchina immensa e, quando qualcosa va storto, non si riesce mai a capire di chi sia la responsabilità.
Negli studi professionali, invece, il responsabile c’è sempre, ed è immediatamente identificabile: il commercialista! E deve pagare!
Ovviamente non si vuole negare che esistano professionisti che non si aggiornano, che accumulano errori in modo ripetuto, esasperando i propri clienti e causando danni anche rilevanti. Si tratta, per fortuna, di casi piuttosto isolati. In queste situazioni il cliente — anche quando si tratta di un amico — dopo una serie di scivoloni ripetuti fa bene a cambiare aria; semmai, il vero problema è che talvolta ci mette fin troppo tempo per farlo.
Conclusione: la verità che nessuno dice
L’errore non è la misura dell’incapacità del commercialista, ma la misura della complessità del sistema. Finché persisterà questa distanza tra ciò che il legislatore pretende e ciò che la realtà consente, finché si confonderà la responsabilità con l’impossibilità, finché si continuerà a chiedere perfezione in un labirinto costruito per generare incertezza, chi pretende l’infallibilità sarà sempre, inevitabilmente, un bugiardo e un ipocrita.
Il commercialista, invece, resta ciò che è: uno dei pochi professionisti capaci di trasformare complessità in ordine, caos in adempimento, incertezza in soluzione. Anche quando sbaglia.
Perché – come ricordava Seneca – errare humanum est, ma è proprio nella capacità di rimettere insieme i pezzi, di trovare una via nel groviglio delle norme, di ricondurre alla ragione ciò che nasce dall’irragionevolezza, che si misura il valore di chi affronta ogni giorno la macchina fiscale italiana senza arretrare.
Nella storia, gli ingegneri dell’impossibile – da Archimede a Brunelleschi, da Galileo a Fermi – non sono stati ricordati per l’assenza di errori, ma per il coraggio di operare dentro la complessità, di sfidarla, di addomesticarla a vantaggio degli altri.
Il commercialista appartiene alla stessa categoria: quella di chi porta ordine dove esiste solo confusione, assumendo sulle proprie spalle l’incertezza generata da altri.
E questa, paradossalmente, è la misura più autentica della sua grandezza: non l’assenza di errori, ma la capacità di trasformarli in responsabilità, lucidità e competenza.
Finché esisterà un sistema che pretende l’impossibile, serviranno uomini e donne che sappiano rendere possibile ciò che non lo è. Come, ad esempio, i commercialisti.

