Il contraddittorio è morto, viva il contraddittorio. Quando l’articolo 17 della L. n. 111/2023 aveva contemplato, tra i criteri direttivi, espressamente la previsione di «applicare in via generalizzata il principio del contraddittorio, a pena di nullità», l’illusione si era diffusa tra i commentatori. Troppo recenti e scottanti erano state le vicissitudini vissute negli ultimi anni sul tema del contraddittorio, ossia della sua necessità o meno ai fini dell’accertamento dei tributi, con un orientamento ondivago pure presso le Sezioni unite di Cassazione (prima con la sentenza n. 19667/2014, dove aveva riconosciuto la necessità del contraddittorio e poi, infine, con la nota sentenza n. 24823/2015, dove aveva invece ristretto il principio dell’obbligo del contraddittorio ai soli tributi armonizzati). Ragione per cui un intervento chiarificatore del legislatore era non tanto opportuno, quanto necessario. E la legge delega lo aveva effettivamente promesso.
Poi però, l’attuazione di quel criterio ha colto tutti di sorpresa, in quanto appariva manifesta la sostanziale violazione del criterio: ciò che in concreto è stato inserito ha forse le sembianze di un contraddittorio ma, di certo, non è assolutamente in grado di coglierne ed esprimerne la ratio.
Come noto, l’attuazione del contraddittorio si è realizzata con l’introduzione di un nuovo articolo 6-bis nella L. n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), appunto rubricata “principio del contraddittorio”. Sennonché, il Legislatore ha in concreto dato attuazione a detto principio prevedendo che gli atti (taluni) impositivi debbano essere preceduti da uno schema di atto, che deve essere notificato al contribuente per consentirgli, nei sessanta giorni successivi, di presentare proprie controdeduzioni.
I vizi logico operativi di una simile soluzione sono apparsi subito evidenti. Come anche l’errore concettuale commesso.
Il vizio di fondo è quello di poter immaginare un contraddittorio, ovvero un confronto dialettico, quando l’Ufficio ha già maturato il proprio convincimento. Lo schema d’atto, difatti, non è altro che la bozza del futuro avviso, per cui è evidente che, quando l’Ufficio lo notifica ha già elaborato, condiviso internamente, una propria convinzione sul trattamento della fattispecie in esame. Sicché, le eventuali memorie del contribuente dovrebbero servire a far cambiare idea all’Ufficio, ma è chiaro come ciò non sia di fatto possibile. La verità è che il contraddittorio, per poter realmente funzionare, avrebbe dovuto collocarsi prima dello schema d’atto, ossia quando l’Ufficio è chiamato ad elaborare il materiale informativo acquisito durante l’attività istruttoria. In quel momento, quando ancora non ha un proprio convincimento, il confronto con il contribuente potrebbe avere un senso a meglio orientare l’indirizzo dell’Ufficio. Ma quando questo indirizzo è formalizzato, farlo cambiare appare un’utopia.
Qui, è l’errore concettuale, peraltro rivelato dallo stesso legislatore, che infatti si riferisce alle memorie del contribuente con la formula “controdeduzioni” (articolo 6-bis, comma 3, l. n. 212/2000). Il Legislatore ha concepito il contraddittorio solo nella logica del diritto di difesa, quando il fondamento del contraddittorio endoprocedimentale non è il diritto di difesa, per cui c’è il processo, bensì la buona amministrazione: è un problema di articolo 97 e non di articolo 24 Costituzione.
L’esperienza pratica conferma questa idea. Presentare osservazioni allo schema d’atto si è rivelato sostanzialmente inutile ed oramai non si fa neanche più. Anche perché, se si presentano le controdeduzioni, c’è il rischio di incappare nella preclusione di cui all’articolo 7, co. 1-quater, d.lgs. n. 218/1997, per cui l’ufficio, ai fini dell’accertamento con adesione, non è tenuto a prendere in considerazione elementi di fatto diversi da quelli dedotti con le eventuali osservazioni presentate dal contribuente (a parte l’assurdità di una tale previsione, posto che eventuali elementi ulteriori, se non vengono considerati dall’Agenzia, possono però essere tenuti in conto dall’eventuale giudice). Meglio aspettare l’avviso per poi, del caso, presentare istanza di adesione.
E difatti, l’adesione è oramai rimasta l’unica vera forma di contraddittorio. Ma è un contraddittorio completamente diverso da quello che vorrebbe il principio del contraddittorio: l’adesione ha una finalità ed una logica di tipo transattivo, dove le parti non mettono in discussione le loro soluzioni, ma ne cercano una che possa andare bene ad entrambe, per chiudere l’accordo. Quindi è un contraddittorio di tipo difensivo, non collaborativo, paragiudiziale: è lo stesso che si ha nella conciliazione giudiziale, di cui, non a caso, l’adesione è un parente stretto.
Ma se così è, perché allora comprimere anche l’adesione? La domanda sorge spontanea alla lettura del Dlgs. 12.6.2025 n. 81 che all’articolo 21 ha modificato l’articolo 6, comma 2-quater, prevedendo che precluda l’istanza di adesione anche l’istanza che sia rivolta all’Ufficio, dopo la notifica di un processo verbale, per la formulazione della proposta di accertamento. La previsione appare infatti quanto meno anomala, perché finisce per precludere l’istanza di adesione anche in ragione di un’istanza che non ha nulla a che fare con l’adesione, ma solamente sapere come l’Ufficio intende elaborare il materiale istruttorio. Ragione per cui la preclusione ad una successiva istanza di adesione appare una restrizione poco coerente e solamente penalizzante. Insomma, sembra di capire, se arriva un processo verbale è meglio starsene in silenzio ed aspettare, come quando arriva uno schema d’atto. Aspettare. Come questo debba esprimere il principio del contraddittorio non è però chiaro; semmai è chiaro che il principio del contraddittorio non ha trovato alcuna realizzazione.
Detto altrimenti, il contraddittorio è uscito di scena prima ancora di potersi dire entrato.