L’Editoriale - Primo maggio: meno ritornelli, sermoni e prediche da palco e più impegno concreto
di Claudio Garau
Ogni anno (puntuale come una tassa, verrebbe da dire) il Primo Maggio – la Festa del Lavoro nata dalle durissime lotte operaie di fine Ottocento - torna a riempire piazze e palinsesti televisivi. Si canta, si marcia, si commemora. Ma viene spontaneo chiedersi: ha senso oggi “celebrare il lavoro” in un Paese dove frequentemente l'occupazione resta sinonimo di precarietà e, a volte, di sfruttamento e svilimento della dignità umana?
L'articolo 1 della Costituzione proclama che l'Italia è una Repubblica democratica e fondata sul lavoro, un'affermazione che – a ben vedere – suona ormai tanto solenne, quanto irrimediabilmente stonata (se non, in alcune occasioni, beffarda). Un principio che, pur nella sua perentorietà, appare una mera e fin troppo ottimistica dichiarazione d'intenti.
Perché, se fosse davvero così, non dovremmo fare i conti con i consistenti numeri che (pur con qualche recente miglioramento certificato dall’Istat) confermano le piaghe della disoccupazione e dell'inattività, ma anche con la pletora di contratti a termine “rinnovabili” fino allo sfinimento (si pensi al comparto scuola) e in barba alla direttiva 1999/70/CE. Ma spicca anche l'esercito di giovani – e oggi, a dire il vero, anche meno giovani - che “lavorano” gratis sotto la nobile etichetta di “stage formativo”, violando lo spirito del DM 142/1998 (si pensi ad es. alle offerte di lavoro per volontari che abbondano sempre più sul portale LinkedIn) o che, ormai esausti da ciò che l'Italia (non) ha da offrire, preferiscono migrare ingrossando la già consistente fetta di expat.
Proprio il Primo Maggio il corto circuito si palesa visivamente, con i ritornelli, i sermoni e le prediche da palco. Non basta il dettato dell'articolo 4 Costituzione, il quale ci ricorda che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto, come pure la corposa normativa in materia. I decreti attuativi del Jobs Act hanno abolito il contratto a progetto (cocopro) voluto nella legge Biagi e introdotto il contratto a tutele crescenti, riformando profondamente la disciplina dei rapporti di impiego, ma contemporaneamente indebolendo le garanzie contro i licenziamenti illegittimi (e in materia si pronunceranno i cittadini con il referendum del prossimo giugno).
Nel complesso, le novità normative di una decina d'anni fa hanno spinto al lavoro flessibile e al part-time con clausole elastiche (talvolta sfociante nel discutibile part time involontario), come pure agli incentivi fiscali per l'assunzione a tempo indeterminato - ma con meno garanzie rispetto al passato.
In sostanza, l'occupazione è oggi tutelata, ma non troppo. Lo Statuto dei Lavoratori, che avrebbe dovuto rappresentare l'imperituro baluardo dei diritti sindacali e della dignità lavorativa, è – a ben vedere - ridotto a un simulacro a causa di successive riforme restrittive (tra tutte quella che ha sostanzialmente abolito l'articolo 18 per i nuovi assunti). Si pensi poi all'altrettanto noto Dlgs. 66/2003 che disciplina l'orario di lavoro e sancisce la durata massima settimanale, ma che spesso viene aggirato con contratti atipici, straordinari non pagati, riposi e ferie negate, turni infiniti mascherati da "flessibilità”, collaborazioni occasionali, partite IVA forzate oppure vero e proprio lavoro nero.
I sindacati sono tra i principali protagonisti degli eventi pubblici del Primo Maggio, ma come non ricordarne il ruolo indebolito nel corso del tempo? Negli anni '90 e Duemila la spinta sindacale nei rinnovi dei Ccnl è diventata via via meno incisiva. Le associazioni hanno spesso accettato rinnovi con aumenti salariali modesti e, soprattutto, hanno faticato a contrastare il crescente fenomeno della precarizzazione.
Già alcuni decenni fa grandi riforme come il Pacchetto Treu o la legge Biagi hanno mostrato luci e ombre, inserendo nuove forme contrattuali atipiche e contribuendo a frammentare i rapporti di lavoro, senza che il sindacato riuscisse a opporre forza contrattuale e una strategia forte e unitaria. E così è stato, in tempi più recenti, anche per l'approvazione del Jobs Act.
E a peggiorare la crisi dei sindacati si è aggiunta la progressiva perdita di rappresentanza delle sigle tradizionali tra i lavoratori più giovani, precari, autonomi e nei nuovi settori digitali, rendendo ancora più difficile incidere sulle scelte del legislatore. Così, mentre si organizzano concertoni, si tengono sfilate istituzionali e si recitano discorsi celebrativi (con una connotazione che spesso sa di attacco politico), la legge c'è ma o non è applicata o è applicata parzialmente, oppure non è sufficiente a tutelare chiunque e tutti i diritti.
Varata in una fase delicatissima per l'economia del Paese, la riforma Fornero del 2012 – uno degli spauracchi solitamente evocati durante gli eventi pubblici del Primo Maggio - aveva (anche) l'ambizioso obiettivo di rivitalizzare il mercato e alleggerire i conti pubblici in fatto di pensioni, ma ha di fatto precarizzato ulteriormente i lavoratori, aumentando il ricorso a contratti instabili e accrescendo il fenomeno dei working poor. Tutto ciò – a ben vedere - è in aperta violazione del principio di cui all'articolo 36 Costituzione, che stabilisce che il cittadino ha diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente a garantire a sé e alla propria famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Se poi volessimo anche interrogarci sulla questione sicurezza sul lavoro, pur difesa dal Dlgs. 81/2008, resteremmo senza rasserenanti risposte, come dimostrano i tragici dati sugli infortuni e le morti bianche, certificati da Inail. Insomma, più che festeggiare il “lavoro”, dovremmo riflettere su tutto ciò che ancora non va.
Il Primo Maggio – forse - dovrebbe essere occasione di bilancio (sulla scorta dei dati Istat, Inps, Inl o Inail), proposta e autocritica, non passerella politica o evento musicale. Un giorno di impegno pubblico e di incontri fitti e confronti “alla pari” e vis à vis tra forze politiche, istituzioni, sindacati, aziende, lavoratori. Una riunione istituzionale e una riflessione civile, carica di responsabilità collettiva, che conduca alla stesura – auspicabile – di un documento recante conclusioni comuni, suggerimenti, proposte fattibili e strade da percorrere per l'effettiva equità salariale, la stabilizzazione dei contratti e le nuove tutele adeguate al lavoro digitale, alle piattaforme, alle nuove forme di subordinazione mascherata.
In un evento come questo anche i cittadini potrebbero dire la loro, magari grazie a consultazioni civiche online con una piattaforma partecipativa ad hoc, attiva nei giorni anteriori al Primo Maggio. Con essa chiunque potrebbe indicare priorità legislative sul lavoro (ad es. sul salario minimo, smart working, orario di lavoro, fiscalità ecc.) da inserire poi in questo successivo dibattito che rivitalizzi davvero il Primo Maggio.
Ma questa giornata potrebbe anche essere occasione per incontri, laboratori e scambi di opinioni nelle scuole superiori di tutta Italia, a cui invitare gli studenti affinché comprendano meglio il valore del diritto del lavoro e al lavoro, cosa sono i contratti di lavoro e le buste paga, quali sono i rischi del lavoro nero e le nuove tutele digitali.
Solo così – con questa sorta di audit pubblico sul lavoro povero e precario e con eventi mirati a sensibilizzare anche i giovanissimi - potrebbe essere davvero rispettato il principio di uguaglianza sostanziale di cui all'articolo 3 Costituzione, il quale impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano libertà e uguaglianza dei cittadini.
Concludendo, sarebbe auspicabile passare da una prassi “cerimoniale” a una “operativa”, puntando ad iniziative che trasformerebbero la giornata in una “palestra” di democrazia del lavoro, anziché una semplice ricorrenza rituale. Altrimenti il Primo Maggio è di nuovo solo - l'ennesimo e retorico - Primo Maggio.