Lo scenario delle politiche fiscali e commerciali internazionali sta subendo il forte impatto delle politiche “trumpiane”.
In queste prime settimane di Presidenza, Donald Trump ha minacciato dazi sui prodotti provenienti da Messico, Canada, Cina ed Unione Europea, iniziando a dare corpo a politiche protezionistiche che vengono giustificate per sostenere il sistema industriale, l’occupazione ed i lavoratori statunitensi.
Si tratta di una svolta antiliberista, protezionistica e sovranista che suscita profonde perplessità, e produce un impatto eversivo sugli approdi del multilateralismo fiscale promosso dall’OCSE; basti considerare che lo scenario trumpiano affianca al rilancio dei dazi il rifiuto degli USA di applicare la Global Minimum Tax sui redditi delle multinazionali, tanto faticosamente promossa dall’OCSE.
Ma l’iniziativa non è isolata ed estemporanea, come potrebbe apparire. Già nel corso del primo mandato presidenziale Trump aveva promosso radicalmente l’impiego dei dazi. Non solo, anche l’Unione Europea, nel corso degli ultimi anni ha elaborato il c.d. Carbon Border Adjustment Mechanism, una nuova entrata, destinata al bilancio dell’Unione e basata su un meccanismo di prezzamento e pagamento delle immissioni di carbonio alle frontiere (Regolamento (UE) 2023/956 del 10 maggio 2023).
La funzione di queste misure è assolutamente diversa, ma emergono punti di contatto sul profilo della fiscalità all’importazione, e quindi, in definitiva, sul tema dei dazi e dei controlli doganali.
Il retroterra culturale e fiscale delle politiche trumpiane va collocato nella storia degli Stati Uniti, in cui, fino ai primi del ‘900, i dazi avevano un ruolo essenziale nelle finanze pubbliche, a scapito delle imposte sui redditi, alquanto embrionali e marginali. Al tempo stesso erano forti le finalità protezionistiche, a favore delle industrie nazionali; esigenze diffuse non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa per contenere il sovrastante potenziale industriale e commerciale del Regno Unito.
Nel corso del ‘900 il quadro del commercio e della fiscalità internazionale è mutato con lo sviluppo e l’integrazione dei mercati, l’avvento delle teorie del libero mercato, il graduale ridimensionamento dei limiti e gravami sulle importazioni, lo sviluppo delle imposte sui redditi, lo sviluppo dei trattati per evitare la doppia imposizione reddituale ecc..
Stando ai profili fiscali i passaggi fondamentali di tale trasformazione possono essere identificati:
nell’avvento dell’imposizione generale sui redditi, che a partire dai primi del novecento ha fortemente caratterizzato i sistemi tributari degli Stati a fiscalità evoluta;
nei lavori del Comitato finanziario della Società delle Nazioni, dedicati alla doppia imposizione, che negli anni 1921-23 portò alla elaborazione di un fondamentale atto di indirizzo, tale da caratterizzare tutta l’evoluzione della fiscalità internazionale, sino ai piani BEPS dell’OCSE degli anni 2010-15;
nelle politiche commerciali e fiscali di Roosevelt e nel nuovo quadro post bellico, da Bretton Woods in poi, dei rapporti economici e finanziari mondiali;
nella creazione dell’OCSE, delle Comunità economiche europee, ed infine dell’Unione Europea, sino a giungere alla creazione dell’ Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO.
Per quanto riguarda le politiche unionali volte allo sviluppo del CBAM, sussistono giustificazioni ben diverse da quelle invocate da Trump per i “suoi” dazi.
Il CBAM rappresenta un elemento essenziale del “Green Deal europeo”, in cui si colloca l’insieme di proposte “Fit for 55” che mirano a ridurre, entro il 2030, le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990 ed a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Si tratta di un meccanismo finalizzato a garantire che gli sforzi di riduzione delle emissioni di gas serra in ambito unionale non siano contrastati da un contestuale aumento delle emissioni al di fuori dei confini, per le merci prodotte all’estero poi importate nell’Unione europea. Il CBAM comporta infatti l’applicazione di un prezzo per le emissioni incorporate nei prodotti di alcune tipologie di industrie, paragonabile a quello sostenuto dai produttori unionali nell'ambito del vigente sistema di scambio delle quote di emissione (EU ETS).
Il nuovo trend politico ed istituzionale dell’unione Europea dopo le elezioni del giugno 2024 potrà comportare una attenuazione delle politiche ambientali unionali, ma di certo non il loro stravolgimento. Il CBAM non sembra interessato dal revisionismo in atto.
Ambiti diversi ma mood analogo tra i dazi di Trump ed il CBAM unionale. Entrambi presentano particolare interesse, in quanto nell’attuale dibattito fiscale post BEPS sulla tassazione dell’economia digitalizzata, sulla dematerializzazione dei modelli di business, sulla catena di creazione del valore ecc., riaccendono l’attenzione sulla rilevanza delle frontiere, sui tributi doganali e sui fattori fisici e materiali della fiscalità e del commercio internazionale. Gli addetti alla fiscalità saranno quindi costretti a recuperare tutto il ventaglio delle classiche discussioni sui tributi doganali, alquanto trascurati negli ultimi anni.
Va quindi sviluppandosi un dibattito sulla possibilità di tornare al passato, e cercare di sostituire le risorse delle recessive imposte sui redditi mediante il recupero dei vecchi dazi doganali, piuttosto che con la più ortodossa tassazione patrimoniale (politicamente improponibile - sic!). Dibattito arduo per noi, dal punto di vista dei fondamentali dati economici del nostro Paese, proiettato ormai da tempo sulle esportazioni, sul manifatturiero, sull’agroalimentare, sulla cronica carenza di materie prime, eccetera. Ma tant’è.