L’Editoriale – Astensionismo, democrazia e lavoro: il prezzo dell'indifferenza
di Claudio Garau
L'uomo è nato libero e dappertutto è in catene, così si esprimeva il filosofo svizzero Rousseau ai tempi dell'Illuminismo e le sue parole sono - ancora oggi - vivide e ricche di significato. Lo suggerisce la nostra Costituzione: viviamo in una Repubblica fondata sulla partecipazione democratica, ma quest'ultima - nel XXI secolo - risente di una vera e propria crisi della rappresentanza, fondata su un metaforico “vuoto elettorale”. A rimetterci sono i comuni cittadini, gli elettori stessi e, in primis, i lavoratori.
La democrazia rappresentativa paga il prezzo del diffuso senso di indifferenza, rassegnazione e pessimismo di chi, inerte, non crede più alle potenzialità del meccanismo di espressione della volontà popolare con referendum ed elezioni. Chi è disoccupato, inattivo oppure scontento di impiego e/o stipendio, spesso si convince che votare non serva a nulla. E le percentuali dell'astensionismo confermano il comune sentire. Alle ultime politiche del 2022 ha votato il 63,9 per cento degli aventi diritto, il dato più basso nella storia repubblicana, ed anche l'affluenza alle recentissime elezioni in Trentino Alto Adige segna una netta flessione rispetto al 2020.
Ecco perché, in vista dei referendum popolari abrogativi dell'8 e 9 giugno, aventi ad oggetto cinque rilevanti quesiti in materia di lavoro e cittadinanza, non ci si aspetta di certo un'inversione del trend.
Insomma, se è vero che sovranità popolare e democrazia rappresentativa sono parte integrante del moderno contratto sociale - e il voto assume la funzione di espressione della volontà generale – è però altrettanto vero che ampie fette della popolazione sembrano sempre più volersi sfilare da tale contratto.
Ma il lavoro, almeno sulla carta, è e continua ad essere una componente fondamentale dei programmi di Governo e degli esponenti politici attivi a livello nazionale e locale, coinvolti nell'elaborazione e attuazione di regole per l'inclusione sociale e il rafforzamento del mercato dell'occupazione. Si pensi, ad esempio, agli obiettivi del PNRR, il quale finanzia progetti pubblici e privati legati alla transizione ecologica e digitale, con ricadute dirette sull'occupazione nei territori, e prevede fondi per la formazione professionale o il rafforzamento dei centri per l'impiego, ma si pensi anche agli incentivi Invitalia a sostegno di nuove imprese, start-up, autoimpiego e riqualificazione di aree svantaggiate oppure – ancora - al programma Garanzia Giovani che, localmente, prevede attività di orientamento, tirocinio e formazione sul campo.
Secondo la tradizione giusfilosofica del contrattualismo, il potere politico trae legittimità dal consenso dei cittadini, ma cosa accade quando metà della popolazione non partecipa al gioco democratico e non crede alle promesse di attuazione dei programmi? In termini hobbesiani, si potrebbe dire che la sovranità diventa potere nudo, mantenuto non dal patto ma dalla forza o dalla consuetudine. Il primato dell'interesse generale rischia allora di cedere il passo all'interesse particolare di una ristretta categoria sociale o élite.
Al contempo, esiste un diritto all'indifferenza? Dal punto di vista costituzionale, l'articolo 48 della Costituzione non sembra dare una risposta favorevole, affermando che il voto è un “dovere civico” del cittadino, e non solo un diritto. Ma chi si astiene dal votare non è sanzionato dal legislatore perché tale dovere è appunto qualificato come “civico” e non propriamente “giuridico” (sebbene in passato lo sia stato).
Anzi, è lecito chiedersi: possiamo ancora parlare di cittadinanza attiva quando un cittadino sceglie di non esercitare alcuna funzione pubblica, né diretta né rappresentativa? L'odierna assenza di una norma che obblighi alla partecipazione elettorale (come accade, ad esempio, in Belgio o in Australia, dove il voto è obbligatorio e sanzionato in caso di astensione non giustificata) rende il nostro contratto sociale estremamente fragile e condizionato dalle oscillazioni e dalla buona volontà dei singoli e da un crescente senso di disillusione. A perderci, in primis, sono i lavoratori.
L'astensionismo non è solo un fenomeno politico, ma ha ricadute concrete sul piano economico, sociale e occupazionale. Quando la partecipazione viene meno, anche le rivendicazioni collettive si affievoliscono. La crisi della rappresentanza produce governi più deboli verso i poteri economici forti, ma anche meno sensibili verso il lavoro subordinato, i diritti sindacali, la contrattazione collettiva. Il dibattito con le parti sociali perde di slancio e si affievolisce.
Ne è esempio emblematico il crescente ricorso al lavoro povero, ai contratti atipici e alla deregolamentazione del mercato del lavoro. In un Paese dove accade che meno della metà degli elettori vota, chi rappresenta davvero le istanze dei lavoratori precari, dei giovani sottopagati, dei pensionati impoveriti? Il rischio è che la volontà generale, smarrita e silente, sia rimpiazzata dalla volontà organizzata di chi detiene strumenti economici e mediatici.
Quando la partecipazione elettorale è bassa, il voto è più facilmente trainato da gruppi organizzati, lobby o interessi forti e questo porta a riforme favorevoli alle imprese, come la liberalizzazione dei contratti a termine o la riduzione delle tutele (si pensi al Jobs Act), senza un vero bilanciamento con i diritti dei lavoratori. I sindacati, parallelamente, perdono forza contrattuale con conseguente “svuotamento” dei Ccnl, sostituiti da accordi aziendali meno protettivi.
Non solo. L'astensionismo tende altresì a favorire politiche fiscali più orientate alla riduzione della spesa pubblica, con tagli a sanità, pensioni, servizi sociali. E, in assenza di un'opinione pubblica partecipe e mobilitata, anche la funzione dell'articolo 1 Costituzione - L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro - rischia di svuotarsi di significato, trasformandosi in una formula retorica. Il lavoro smette di essere fondamento della cittadinanza, e diventa merce negoziabile nei tavoli del potere.
Anzi, potremmo parlare ormai di paradosso della delega politica permanente, un corto circuito nei rapporti tra cittadini e istituzioni: l'astensionismo alimenta la concentrazione del potere decisionale in minoranze organizzate e tendenzialmente auto-referenziali, rafforzando il potere dei partiti e riducendo l'efficacia della partecipazione popolare. Un potenziale circolo virtuoso che si riduce in un biasimevole circolo vizioso, di cui beneficiano gruppi ristretti della popolazione.
La crisi della rappresentanza si trasforma allora in decostruzione della cittadinanza, in un progressivo ritiro del cittadino nella sfera privata di cui fa le spese il lavoratore. Questi, privo di rappresentanza reale, deluso dall'azione - o dalla crisi d'identità - delle associazioni sindacali e non in grado di esercitare pressione collettiva, si ritrova isolato e senza punti di riferimento.
Ecco, allora, che il contratto sociale si sfibra proprio laddove dovrebbe essere più forte: nel rapporto tra dignità, diritti e lavoro. Tra le proposte di riforma della democrazia rappresentativa, si pensi ad esempio al sorteggio dei rappresentanti (sortition), al voto elettronico o alla riduzione dell'età elettorale: a ben vedere, paiono un disperato tentativo di rianimare un corpo sociale disgregato. La democrazia non può essere surrogata tecnologicamente, o con fragili escamotage, perché il vero problema è filosofico-politico: se il cittadino non riconosce più nel rappresentante un proprio delegato, il patto sociale si spezza e prevale la silenziosa e fallimentare rinuncia.
A questo punto, la domanda suona quasi retorica e beffarda: se la sovranità appartiene al popolo (articolo 1 Cost.), e il popolo non esercita più questa sovranità, chi sta realmente governando? A parere di chi scrive, servirebbe una nuova educazione civica e alfabetizzazione politica (senza distinzioni partitiche si intende) nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei forum civici o nelle assemblee di quartiere. Una riflessione collettiva che metta al centro il lavoro, la dignità, la responsabilità, la partecipazione, la condivisione di idee e opinioni, e – forse - il coraggio di riscrivere un nuovo contratto o patto sociale tra Stato e cittadini.
Al contempo, i media – sia quelli cartacei, sia quelli televisivi e digitali – dovrebbero cambiare la loro linea orientandosi decisamente a un giornalismo “civico”, che informi con linguaggio semplice e onesto, contrastando disinformazione, fake news e la spettacolarizzazione della politica e dei suoi protagonisti. Referendum ed elezioni sono strumenti chiave della democrazia, in ogni epoca storica, e chi lo dimentica rinuncia colpevolmente al contratto sociale.