L'Editoriale - Principi sulle operazioni oggettivamente inesistenti: quando la ragionevolezza dovrebbe imporsi sulla giurisprudenza consolidata
di Andrea Carinci
A volte può sembrare difficile comprendere il senso di una pronuncia della Suprema Corte. È quello che accade, da ultimo, con la sentenza n. 8716/2025. Perché qui l’impressione che si ricava è che la Suprema Corte abbia voluto semplificare al massimo il discorso, per potersi agevolmente adagiare sui propri precedenti.
Nel caso a processo venivano contestate operazioni oggettivamente inesistenti. Al di là del merito, dove a rigore non era esattamente chiaro se venissero contestate operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, il ragionamento assunto dalla Corte è rimasto totalmente circoscritto ai propri precedenti, anche se, a rigore, questi non apparivano pertinenti.
Sul punto è infatti assolutamente pacifico che «l'Amministrazione finanziaria ha l'onere di provare che l'operazione in fattura non è mai stata effettuata. Ma il contribuente deve dimostrarne l'effettiva esistenza con una prova che vada oltre la regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento» (ex multis Cass. n. 21733 del 29 luglio 2021). Parimenti è poi pacifico che l’Amministrazione può fornire la prova anche solo in forma indiziaria (Cass. del 24 settembre 2014, n. 20059; Cass. del 19 settembre 2012, n. 15741; Cass. dell’11 dicembre 2013, n. 27718), adducendo quindi argomenti che non investono direttamente l’operazione, quanto semmai i protagonisti della stessa: ecco allora che l’Agenzia può limitarsi a provare l’assenza in capo al prestatore di locali adeguati, la mancanza di personale e/o di utenze, eventuali inadempienze fiscali ecc. Una serie di elementi che, insomma, non hanno nulla a che fare con la prova dell’operazione, ma che possono far insorgere il dubbio che la stessa sia stata realmente posta in essere.
La perplessità che tuttavia la sentenza da cui si sono prese le mosse solleva è che un simile ragionamento non può essere in concreto riproposto sempre e nei medesimi termini. Nel caso a processo si discuteva dell’inesistenza di operazioni immobiliari: segnatamente, dell’avvenuta costruzione o meno di fabbricati. Ed è evidente che in un caso simile trattare di meri indizi sembra quanto meno forzato: se è vero, come del resto la Cassazione ripete ogni volta, che l’onere in prima battuta è dell’Agenzia, nel caso di operazioni immobiliari non può assolutamente bastare un quadro meramente indiziario. Ciò, per l’assorbente ragione che verificare o meno l’esistenza di un immobile appare qualche cosa di facilmente verificabile: basta un accesso in luogo se non, addirittura, una schermata con Google maps. E pretendere che una simile prova debba essere data dal contribuente (nel caso in commento, peraltro, la questione non era neanche in discussione, tant’è che il ricorrente aveva – inutilmente - invocato l’articolo 115 c.p.c.) contraddice in principio lo stesso insegnamento della Cassazione, che esige dall’Agenzia la prova dell’inesistenza dell’operazione. Certo, che una simile prova possa essere data in via solo presuntiva lo si può anche giustificare, ma chiaramente solo nei casi in cui una prova positiva appare complessa e di difficile esperimento. Ma quando, invece, la prova non è così difficile, richiedendo solo una verifica in luogo o una schermata di computer, ritenere che l’Ufficio non ne sia onerato pare chiaramente una forzatura logico argomentativa. Una forzatura, che per inciso, appare oggi difficilmente giustificabile alla stregua dell’articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs n. 546/1992, dove, si ricorda, è prescritto che «il giudice ... annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni». Ed allora appare evidente che, se la prova può essere fornita concretamente in positivo ed il ricorso alle presunzioni finisce per essere un mero escamotage per bypassare la volontà del legislatore espressa dall’articolo appena citato, la prova su base solo indiziaria non può essere accettata. Tutto ciò per dire che in materia di operazioni inesistenti, se l’inesistenza è invocata per operazioni immobiliari, la cui verificazione non appare assolutamente complessa per l’Agenzia, quest’ultima non si può limitare ad invocare meri indizi (neppure presunzioni), ma deve ricercare la prova reale dell’inesistenza; banalmente verificando che l’immobile non è stato in concreto realizzato.
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Foto di Arek Socha da Pixabay