Le insidie da evitare quando l’Ente si arrende prima dell’udienza
di Simona Baseggio e Barbara Marini
È esperienza ormai non infrequente che l’Amministrazione finanziaria, a fronte di una impugnazione giudiziale da parte del contribuente, scelga di abbandonare il campo prima ancora dell’udienza, rinunciando, di fatto, a una resistenza contenziosa. Si costituisce, sì, riconoscendo – più o meno esplicitamente – la fondatezza della pretesa avversa, ma chiedendo la compensazione delle spese.
Tale fenomenologia contenziosa ha trovato terreno fertile, in particolare, nei casi di accertamenti massivi fondati su meccanismi informatici opachi e spesso viziati da dati parziali, se non errati. Emblematico il caso dell’imposta di soggiorno, in cui taluni Comuni – anche di notevoli dimensioni – hanno incrociato dati propri e altrui (si leggano: quelli forniti dalle Questure) con risultati che, in non pochi casi, hanno assunto i tratti dell’assurdo tributario. Un altro caso è quello degli accertamenti IMU emessi nei confronti dei coniugi con residenza in comuni differenti, prima che la Corte Costituzionale provvedesse a rimettere ordine sulla questione con la sentenza 209/2022.
Così, capita che l’ente impositore, compreso l’errore, non difenda realmente le proprie ragioni, bensì si limiti ad attestare la ragionevolezza delle doglianze del contribuente. Ma qui sorge, per il difensore, un problema affatto secondario e che, ove mal governato, rischia di vanificare il senso stesso del contenzioso promosso.
La prima criticità attiene all’effettività dell’annullamento dell’atto impugnato. La circostanza che l’ente, nelle proprie controdeduzioni, riconosca l’errore, non equivale, né surroga, l’adozione di un formale atto di autotutela. E poiché il giudice deve decidere solo sulla base degli atti presenti nel fascicolo, se l’annullamento non è stato prodotto, l’atto impugnato risulta ancora efficace. In questi casi, in assenza di un provvedimento di annullamento da parte dell’Ente, la cessazione della materia del contendere non può (e non deve) essere dichiarata, atteso che non vi sarebbe alcuna certezza sull’eliminazione dell’atto lesivo. Il difensore accorto, dunque, non potrà accontentarsi della semplice "resa" dell’Amministrazione, ma dovrà esigere – rectius: pretendere – una sentenza di annullamento. Solo essa può offrire tutela piena e definitiva.
L’ulteriore criticità riguarda l’attribuzione delle spese. Troppo spesso, infatti, capita che, quando l’ente si “arrende” prima dell’udienza, i giudici compensino le spese, con la motivazione (più o meno esplicita) che l’amministrazione ha comunque collaborato o non ha resistito in modo attivo. Sennonché, tale prassi si pone in conflitto con quanto statuito, già nel lontano 2005, dalla Corte costituzionale (sent. n. 274/2005), la quale ha sancito l’illegittimità dell’automatismo compensatorio in caso di cessazione della materia del contendere. La Consulta, con argomentazione chiara e inequivocabile, ha affermato che tale automatismo viola il principio di ragionevolezza (articolo 3 Cost.), premiando irragionevolmente l’Amministrazione che si ritrae solo a contenzioso avviato, e penalizzando il contribuente che, per ottenere giustizia, ha sopportato costi difensivi ingenti e non necessari.
Alla luce di tale arresto, e con l’abrogazione, nel 2016, del comma 3 dell’articolo 46 del Dlgs n. 546/1992, si è affermata una rinnovata centralità dell’articolo 15 dello stesso decreto, oggi nuovamente riformato (Dlgs n. 220/2023), il quale limita la possibilità di compensazione alle sole ipotesi in cui la parte vittoriosa abbia prodotto in giudizio, per la prima volta, documenti decisivi che avrebbe potuto presentare prima.
È dunque evidente che la possibilità di compensazione delle spese, secondo la lettera e la ratio dell’articolo 15 del Dlgs n. 546/1992, si ricollega in modo puntuale alla condotta processuale della parte vittoriosa, e segnatamente alla novità della documentazione prodotta in giudizio. Dev’essere, cioè, documentazione che non era – e non poteva essere – nella disponibilità della controparte in fase precontenziosa, così da giustificare l’erroneità originaria della pretesa. In questa prospettiva, assume rilevanza dirimente la qualità dell’attività svolta nella fase procedimentale, che dovrebbe essere improntata alla massima chiarezza e completezza: sin dalla prima interlocuzione, infatti, è opportuno che il contribuente predisponga una difesa tecnica dettagliata e sorretta da adeguato apparato documentale, così da porre l’Amministrazione nella condizione di riconsiderare, se del caso, le proprie determinazioni.
Sotto questo profilo, la previsione normativa introduce un criterio che valorizza la buona fede e la diligenza processuale, riconoscendo rilevanza a ciò che è stato fatto (o omesso) prima ancora che il giudizio abbia inizio. L’istruttoria preprocessuale diviene così non solo momento di confronto, ma anche terreno di costruzione della futura difesa sulle spese: una corretta gestione del contraddittorio può riverberare effetti positivi ben oltre la sua funzione amministrativa originaria.
Anche la giurisprudenza di legittimità si è attestata sui medesimi principi fin qui richiamati: con la recentissima ordinanza n. 6068 del 6 marzo 2025, si è infatti ribadito che la compensazione delle spese può ritenersi ammissibile solo in presenza di specifiche, gravi ed eccezionali ragioni, le quali devono essere puntualmente indicate in motivazione. Il richiamo a tali condizioni, tutt’altro che di stile, costituisce presidio del principio di effettività della tutela giurisdizionale e, insieme, strumento di riequilibrio tra le parti in causa. Anche quando la controversia si chiude senza un reale confronto nel merito, il giudice è tenuto a valutare, con rigore, la condotta delle parti e le concrete dinamiche del processo, onde evitare che un comportamento processualmente rinunciatario possa tradursi in una indebita esenzione da responsabilità sulle spese.
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Foto di Manie Van der Hoven da Pixabay