Nel dibattito politico interno ritorna periodicamente e immancabilmente il tema dell’introduzione di una imposta patrimoniale (si veda il Corriere della Sera di domenica scorsa). Su questo argomento si registra da sempre una contrapposizione stereotipata e pregiudiziale tra i partiti di destra, fermamente contrari per principio, e l’area di sinistra, tradizionalmente considerata ideologicamente favorevole alla tassazione, molto più possibilista al riguardo.
In un contesto del genere, è ovviamente molto difficile impostare un ragionamento lucido, scevro da condizionamenti aprioristici. Occorre ovviamente partire da una premessa di fondo: stante il livello raggiunto dalla pressione fiscale in Italia, nessuna persona di buon senso potrebbe condividere l’idea di istituire un tributo patrimoniale che sia meramente aggiuntivo rispetto ai prelievi esistenti.
Se invece si parte da un approccio diverso, volto a delineare una ipotesi di riorganizzazione del sistema tributario nazionale, le conclusioni non sono affatto così scontate. Il nostro ordinamento, infatti, contiene già numerose tipologie di tributi che sono di natura patrimoniale o, per così dire, “cripto patrimoniale” che ben si presterebbero a confluire all’interno di un progetto di riordino del sistema.
Si pensi, ad esempio, all’imposta di bollo sulle attività finanziarie (articolo 19, DL 201/2011), all’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (articolo 19, citato) e all’imposta sul valore degli immobili detenuti all’estero (articolo 19, citato). Ma considerazioni analoghe si possono proporre per le imposte ipotecarie e catastali che, essendo commisurate di norma in misura percentuale al valore immobiliare, non possono ragionevolmente qualificarsi in termini di prelievo collegato ad un servizio reso dalla pubblica amministrazione. In effetti, tutte le imposte indirette sui trasferimenti (imposta di registro, imposta di successione e donazione) presentano caratteristiche tali da poter essere “assorbite” all’interno di un tributo patrimoniale. Peraltro, in caso di sostituzione delle prime con il secondo potrebbero determinarsi effetti economici favorevoli tanto in termini di facilitazione della circolazione dei beni immobili quanto in punto di ulteriore incentivo a rendere produttivi gli investimenti immobiliari.
In un quadro di riordino, l’Imu, a nostro avviso, dovrebbe restare sostanzialmente confermata nei suoi elementi strutturali, perché è bene che il finanziamento degli enti locali non ritorni a dipendere per intero dalle sole entrate da trasferimento. In linea di principio, gli immobili soggetti ad Imu dovrebbero essere naturalmente esclusi dall’ipotetica futura patrimoniale. Vi sarebbe semmai da valutare, sotto il profilo squisitamente tecnico, la correttezza dell’esenzione totale dell’abitazione principale, in ragione del fatto che il tributo locale ideale è quello che risponde ai criteri di responsabilità (accountability): i soggetti passivi dovrebbero tendenzialmente, anche se non esclusivamente, coincidere con gli elettori, di modo che, in caso di cattiva gestione delle imposte versate, gli amministratori siano puniti dal voto (pago, vedo, voto). Un tributo che colpisca prevalentemente i non residenti si presta a generare una situazione di irresponsabilità in capo agli amministratori locali. Un compromesso, peraltro suggerito da tempo dagli organismi internazionali, potrebbe essere quello di prevedere ampie fasce di esenzione per le abitazioni principali, fondate sul valore degli immobili o sul reddito, così da salvaguardare i ceti più deboli.
Il tema dell’Imu ci porta però al vero punto critico, da sempre ostativo a qualunque ipotesi di riforma patrimoniale, che è quello della revisione delle rendite catastali, ferme ai valori immobiliari del biennio 1988 – 1989. La situazione attuale è davvero insostenibile, dal lato dell’equità fiscale, con unità immobiliari di nuova costruzione in zone periferiche che in taluni casi hanno rendite più elevate di unità più vecchie ubicate nel centro storico, aventi un valore di mercato di gran lunga superiore. La circostanza che tale stato di fatto sia, sostanzialmente, tollerato dall’opinione pubblica è probabilmente da ricercarsi nella sensazione, di difficile valutazione sotto il profilo concreto, che i soggetti che oggi sono avvantaggiati siano più numerosi di quelli che ci rimettono. Indubbiamente, rivedere le rendite catastali significherebbe scoprire il vaso di Pandora con effetti a cascata del tutto imprevedibili, anche per le annualità pregresse.
La conclusione è che, sebbene si possa ragionevolmente ritenere che ci sia spazio in Italia per introdurre un prelievo patrimoniale a “bassa intensità”, cioè con franchigie estese ed aliquote basse, entro cui far confluire una molteplicità di prelievi attualmente esistenti, il fatto di dover affrontare il nodo pregiudiziale della revisione delle rendite catastali lascia intendere che ciò non potrà mai avvenire senza un ampio consenso politico.