Le DAO, i Kibbutz e le Comunità energetiche

di Daniele Majorana

Nei sistemi giuridici europei il diritto di proprietà è stato costruito attorno al principio dell’esclusività individuale tipico della tradizione liberale, secondo cui la proprietà di un bene conferisce il controllo assoluto, l’alienabilità e la facoltà di esclusione. Sulla base di questo paradigma si è generato un sistema in cui la proprietà determina il potere e l’allocazione delle risorse.

Sotto un profilo procedurale, il diritto di proprietà ha tradizionalmente fatto affidamento sulla verifica istituzionale: i registri statali certificano la proprietà, i tribunali giudicano le controversie e i meccanismi di applicazione proteggono i diritti. Questa architettura presuppone un’autorità centralizzata come garante dei rapporti di proprietà. La tecnologia blockchain stravolge questo paradigma sostituendo la verifica istituzionale con meccanismi di consenso crittografico. I registri di proprietà esistono su reti decentralizzate dove la convalida deriva da prove computazionali piuttosto che dall’autorità istituzionale.

Il brocardo “code is law“ riassume questa trasformazione: i rapporti di proprietà traggono la loro forza vincolante dai protocolli sottostanti la blockchain piuttosto che dalla legge o dall’intento sottostante l’accordo delle parti. Ciò non significa che la governance costruita tramite protocolli di per sé sia sufficiente alle asimmetrie di potere, essa semplicemente le riconfigura. La tecnologia, infatti, ha una valenza neutrale: l’architettura software incarna scelte normative relative all’accesso, al controllo e alla distribuzione del valore. I protocolli blockchain riflettono impegni ideologici su chi dovrebbe possedere e trarre vantaggio dalle risorse digitali. Pertanto, la questione non è se la tecnologia plasmerà il diritto di proprietà, ma quali valori saranno incorporati in tale tecnologia.