Le criptoattività non sono tutte uguali: una sfida concettuale e giuridica
di Stefano Capaccioli
Il crescente sviluppo delle criptoattività ha determinato l'emersione di un nuovo paradigma decentralizzato, caratterizzato da sfide interpretative che coinvolgono sia la tecnica sia il diritto.
Troppo spesso molti utilizzano bitcoin, token, valute virtuali, cripto-valute e cripto-attività quali sinonimi con una certa disinvoltura, certificando di essere totalmente digiuni dell’argomento, soprattutto quando si cerca di accreditarsi.
Qualunque percorso concettuale deve contemperare l’evoluzione tecnologica con lo sforzo dei regolatori di enucleare definizioni finalizzate all’implementazione di normative.
A tal fine occorre subito distinguere: i concetti di bitcoin, criptovalute e token sono nozioni tecniche, mentre valute virtuali e criptoattività sono definizioni giuridiche.
Il punto di partenza dell’ambiguità dell’innovazione è costituito dalla rottura generata dal bitcoin della archetipica distinzione tra res, personae e actiones, tradizionalmente fondamentali nel diritto romano e tuttora alla base delle costruzioni giuridiche.
Tale distinzione si dissolve: l'oggetto dello scambio non è tangibile ed in alcuni sistemi è confuso con la transazione stessa (UTXO – transazioni non spese per bitcoin), il soggetto si identifica attraverso chiavi crittografiche invece che attraverso l'identità personale, e l'azione non è mediata da un'autorità centrale ma si manifesta in una sequenza algoritmica su una rete decentralizzata.
L’identità è gestita esclusivamente attraverso la crittografia asimmetrica, con un sistema di identità su diversi livelli: partendo da un’identità intima (core identity) conosciuta dall’individuo si giunge, talvolta per il tramite di una chiave pubblica, ad un’identità pubblica costituita dall’address che rappresenta l'unico elemento visibile e utilizzato nelle transazioni. Questa struttura introduce un'identità che può essere frammentata, che non può essere ricondotta con certezza a un soggetto determinato, sfidando i tradizionali principi di identificazione giuridica.
Le chiavi private vengono gestite attraverso un wallet, un’applicazione (software) usata per generare, gestire, archiviare o utilizzare chiavi private, chiavi pubbliche e indirizzi pubblici, senza necessariamente la presenza di un soggetto terzo né tantomeno di un rapporto contrattuale: la traduzione di wallet in portafoglio digitale, pertanto, è concettualmente fuorviante e occorre tenerne debita considerazione.
Bitcoin, innovazione dirompente che ha dischiuso le porte di questo nuovo mondo, nasce quale mezzo di pagamento in vitro, la cui funzione si esaurisce in sé stessa e che, quindi, ha funzione monetaria all’interno del proprio sistema, assumendo la qualità di mezzo di scambio fuori dal suo contesto, qualora accettata.
La riuscita di bitcoin ha generato l’esplorazione di nuovi sistemi transazionali decentralizzati, con la creazione di nuove criptovalute, intese come mezzi di pagamento nei propri ecosistemi: ogni nuovo meccanismo necessitava di una community che lo manteneva ed energia per il meccanismo di consenso decentralizzato con difficoltà crescente.
Alcuni sistemi, oltre il mezzo di pagamento, hanno introdotto funzioni di programmazione e di esecuzione di applicazioni nella stessa rete, denominati smart contract (o persistent script), permettendo creare token, con le stesse logiche transazionali della piattaforma su cui sono generati ma con diverse caratteristiche tecniche.
Dal bitcoin siamo giunti ai token le cui caratteristiche spaziano dai fungible token (ERC20), ai non-fungible token (ERC721), ai semi-fungible token (ERC1155), fino ai soulbound token o a sistemi di account abstraction.
L’esplosione tecnica, che tende a continuare sviluppando ulteriori soluzioni sulle diverse piattaforme, ha generato difficoltà di inserimento all’interno dei sistemi giuridici, con necessità definitorie per rendere applicabili le varie normative.
È indispensabile riflettere che ogni protocollo nasce senza alcun valore e senza alcun diritto, poiché ha una struttura tecnica con determinate caratteristiche e logiche di transazioni. L’utilizzo ovvero ciò che a quel protocollo viene aggiunto, costituisce l’elemento di interesse poiché può assumere valenza economica, con conseguente impatto nelle relazioni economiche e sociali e necessità di introdurre regole per disciplinare alcuni effetti.
In Unione Europea, il punto di partenza, è stata la Sentenza della CGUE C-264/14 ove, a fini IVA, si valorizzavano le qualità di mezzo di pagamento “semplice” (mai di valuta), base da cui è originata la prima definizione positiva nella V direttiva Antiriciclaggio di Valute Virtuali, poi divenuta parte integrante del diritto comunitario.
La nozione, frutto anche della rielaborazione dei documenti del GAFI-FAFT e della BCE, concentra la propria attenzione sulla funzione di mezzo di scambio, mai di moneta o valuta la cui assimilazione viene esclusa categoricamente, con valenza antiriciclaggio per determinate categorie di attori.
In campo tributario, in maniera maldestra, è stato valorizzato l’effetto della Sentenza C-264/14 senza analizzare le motivazioni, ritenendo prima il bitcoin, poi le criptovalute ed infine le valute virtuali quali valute estere, in palese contrasto con il dettato comunitario e le definizioni del Testo Unico di Leggi Valutarie (DPR 148/1988).
È indubbio che la nozione di valute virtuali non potesse soddisfare le esigenze di regolazione dei mercati finanziari, con necessità di ampliamento della definizione, non solo alle rappresentazioni digitali di valore, ma anche di diritti per includere un fenomeno sempre in continuo movimento.
La definizione di criptoattività, contenuta nella MICAR (Regolamento UE 1114/2023) e ripresa dal legislatore tributario è ben più ampia di “una rappresentazione digitale di valore o di diritti che possono essere trasferiti e memorizzati elettronicamente utilizzando la tecnologia di registro distribuito o una tecnologia analoga”.
Tale nozione, pur costituendo un ampliamento del concetto di valute virtuali, potrebbe non includere insieme di protocolli e di esplorazioni che vengono fatte nel mondo cripto, quali alcune forme di meme coin, governance token di DAO (Decentralized Autonomous Organization) e strumenti di De.Fi. (Decentralized Finance).
La semantica nell’ecosistema delle criptoattività rappresenta una delle sfide più complesse per il diritto contemporaneo poiché qualunque definizione deve essere sostenibile anche da un punto di vista tecnico.
La difficoltà di inquadramento giuridico di questi strumenti deriva dalla loro stessa natura, che si colloca al confine tra informatica, economia e diritto.
La ricerca di definizioni coerenti e applicabili è un processo in divenire, che richiede un approccio multidisciplinare capace di integrare innovazione tecnologica e principi giuridici consolidati.
L’unica certezza è che il diritto dovrà necessariamente adattarsi a questa nuova realtà, ridefinendo concetti che sembravano immutabili e aprendo la strada a una nuova semantica normativa.