L’assenza della lingua italiana nella legge delega sulla tutela del patrimonio culturale immateriale
di Gloria Mancini Palamoni
Nel 2024 il legislatore, con la L 152, non ha solo riconosciuto e valorizzato le manifestazioni di rievocazione storica (di cui si è parlato nel precedente contributo), ma ha anche delegato il Governo ad adottare le norme per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
Il secondo capo della legge (articoli 10 e 11) risponde a quelle istanze, da più parti avanzate, di una normativa organica tesa a proteggere le molteplici espressioni del patrimonio intangibile e a valorizzare il potenziale economico che può derivarne.
In particolare, «lo Stato riconosce il patrimonio culturale immateriale come componente del valore identitario e storico per gli individui, le comunità locali e la comunità nazionale, assegnando rilievo alle prassi, alle rappresentazioni, alle espressioni, alle conoscenze, alle competenze nonché agli strumenti, agli oggetti, ai manufatti e agli spazi culturali associati agli stessi, che le comunità, i gruppi e gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale» (articolo 10).
Nonostante la rubrica dell’articolo sia Principi relativi al patrimonio culturale, i diciannove principi e i criteri direttivi ai quali i decreti legislativi che il Governo, su proposta del Ministro della cultura, di concerto con altri (dell'ambiente e della sicurezza energetica, dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, dell'università e della ricerca, dell'istruzione e del merito e del turismo) e previa intesa in sede di Conferenza unificata e preventiva acquisizione del parere del Consiglio di Stato, è tenuto ad adottare, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge (11 novembre 2024), sono indicati al successivo articolo 11 comma 2, spec. lettere da a) a u).
Oltre ad indicazioni di carattere più operativo (tra le quali, ad es., l’istituzione di elenchi nazionali per la catalogazione dei diversi elementi che lo compongono) tese anche alla semplificazione, alla razionalizzazione e al coordinamento delle attività amministrative per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale intangibile, sono due gli aspetti che rilevano ai fini del tema che ci coinvolge.
Il primo riguarda l’importanza riconosciuta alla partecipazione delle comunità (e delle associazioni di categoria) alla diffusione del patrimonio culturale sia per lo sviluppo della persona umana e per la crescita sociale e culturale della comunità nazionale nel rispetto reciproco tra persone e tra popoli, sia per assicurare, anche mediante l’uso delle nuove tecnologie, la vitalità dei beni culturali immateriali finanche nell’interesse (e memoria) delle future generazioni e della loro qualità della vita. Le testimonianze aventi valore culturale e identitario costituiscono un ponte intergenerazionale e lo scambio di conoscenze contribuisce alla realizzazione di uno sviluppo sostenibile (con chiaro riferimento alla Convenzione di Faro e al Cultural Heritage, traducibile con ‘patrimonio’, ma anche con ‘eredità’ culturale).
L’elemento della partecipazione della cittadinanza è, pertanto, essenziale per acquisire la consapevolezza di un così plurale e ricco patrimonio culturale immateriale e rappresenta il presupposto per la trasmissione delle espressioni culturali intangibili.
Quest’ultima questione è strettamente collegata al secondo aspetto relativo, più propriamente, alle espressioni linguistiche. Il criterio direttivo di cui alla lett. d), infatti, mira a «proteggere e promuovere la diversità delle espressioni culturali e linguistiche presenti nel territorio nazionale, quale presupposto per la piena partecipazione di ogni persona alla vita della comunità e quale fattore di crescita e di arricchimento individuale e sociale». Dalla lettura della lettera pare che questo riferimento possa includere sia i dialetti che le leggi regionali, anche alla luce di quanto indicato alla lettera h), secondo la quale sarà necessario «individuare procedure partecipative diffuse volte a consentire ai praticanti gli elementi immateriali di definire e aggiornare costantemente la documentazione e l'inventariazione presente nelle banche di dati statali».
Sebbene il legislatore avrebbe potuto inserire in maniera espressa, quale parte del patrimonio culturale immateriale, anche lingua italiana, i criteri sopra richiamati paiono adeguati pure alla salvaguardia stessa dalle contaminazioni alla quale il processo di globalizzazione l’ha esposta e la espone, come da monito della Corte costituzionale (sent. n. 42 del 2017). Significativo è il riferimento alle “comunità dei praticanti” proprio in considerazione del fatto che la principale modalità di protezione e valorizzazione di una lingua è il suo utilizzo in tutti i rami del sapere.
Resta il dubbio se si tratti di una decisione dovuta alla volontà di riservarle una legge ad hoc (stante le proposte pendenti sul punto) o se l’assenza sarà colmata mediante i decreti legislativi. Quale sia la scelta, l’auspicio è una sua tutela quale elemento fondamentale non solo come veicolo per la cultura, ma anche quale bene culturale in sé.
Sullo sfondo, resta un dubbio di sistema. La disciplina di riferimento del patrimonio culturale è contenuta nel Codice Urbani (Dlgs 42 del 2004) che, se si esclude l’articolo 7-bis che prevede una ‘tutela indiretta’, protegge e valorizza i beni culturali e paesaggistici tangibili. Sebbene i quadri regolatori in esso contenuti, a poco più vent’anni dalla sua approvazione, andrebbero rivisti alla luce delle trasformazioni ecologica e digitale, eccetto la riforma in corso, tesa più che altro alla semplificazione di taluni procedimenti amministrativi, le più recenti innovazioni al sistema ordinamentale si stanno realizzando al di fuori dell’impianto del Codice. Quello che viene da domandarsi allora è se non siamo forse davanti all’inizio di un processo di decodificazione.