L’arte di piacere al potere: perché nelle aziende chi sa coltivare relazioni spesso arriva più lontano
di Andrea Tordini
Generalmente, in azienda, c’è sempre qualcuno che sembra muoversi con una naturalezza particolare tra i vertici, che sa trovare le parole giuste nelle riunioni decisive, che riesce a entrare nelle grazie di chi comanda. Non sempre è la persona più competente, né quella più brillante. Eppure, avanza. Sale di posizione, conquista fiducia, consolida la propria presenza. È un fenomeno antico e al tempo stesso sorprendentemente attuale: la carriera che non segue il merito, ma la relazione.
Chi osserva da fuori spesso si indigna o si scoraggia. È difficile accettare che l’impegno e la bravura (almeno per quello che ci hanno detto che fosse) non bastino, che la visibilità conti più della sostanza. Eppure, in questa dinamica si nasconde una verità più profonda: le organizzazioni non sono solo strutture razionali, ma ecosistemi emotivi, fatti di fiducia, affinità, paure e riconoscimenti. L’essere umano resta il motore di ogni sistema, e chi sa interpretare le sue logiche relazionali - anche senza un genio straordinario - finisce per trovare spazi di crescita che agli altri restano preclusi.
La vicinanza al potere, nelle aziende, ha spesso una funzione rassicurante. Chi governa può tendere a circondarsi di persone che percepisce come affidabili, prevedibili, “sicure”. È una forma di autodifesa: fidarsi di chi non mette in discussione il sistema, di chi sa essere discreto, di chi non spaventa. E così il circuito si alimenta. È una dinamica umana.
Ma se da un lato questo meccanismo può sembrare ingiusto, dall’altro ci insegna qualcosa di prezioso. Ci spinge a ricordare che nelle organizzazioni non basta lavorare bene: bisogna anche sapere comunicare, condividere, entrare in relazione. A mio avviso, il merito ha senso solo se si traduce in un valore riconosciuto dagli altri. Chi vive l’azienda come una somma di processi, e non come una comunità di persone, rischia di restare invisibile.
La relazione, però, a mio avviso, non dovrebbe essere un esercizio di arrivismo. Il confine tra diplomazia e opportunismo è sottile, e chi lo oltrepassa finisce per poter perdere credibilità, anche quando ottiene risultati. Le relazioni sane, invece, nascono da un atteggiamento genuino: la curiosità verso gli altri, l’ascolto, la disponibilità a collaborare. Sono doti che non si improvvisano, ma si coltivano con il tempo, con la stessa cura con cui si sviluppano le competenze.
Molti giovani professionisti, oggi, vivono con amarezza questa apparente ingiustizia. Si sentono esclusi da logiche di potere che non comprendono o non vogliono accettare. Ma il punto non è rinunciare, né imitare chi sa compiacere. Il punto è capire come funziona davvero un’organizzazione e imparare a muoversi dentro di essa senza snaturarsi. Costruire relazioni autentiche non significa piegarsi, significa crescere. Significa imparare a essere visibili senza essere falsi, a comunicare senza manipolare, a collaborare senza sottomettersi.
Nelle aziende “sane” sotto questi profili, dove le persone hanno spazio per crescere, la leadership non è potere sugli altri ma capacità di generare fiducia. È quella forza silenziosa che trasforma le relazioni in energia, che fa emergere il talento senza bisogno di urlarlo. È un tipo di leadership che nasce dall’ascolto e dal rispetto, non dall’adulazione. E anche se può sembrare meno “vincente”, alla lunga costruisce basi più solide e durature.
In questo senso, il mio messaggio per i più giovani è il seguente: le relazioni contano, ma contano di più (molto di più) quando sono sincere e spontanee. Non serve cercare di piacere ai potenti, serve imparare a comprendere le persone. È un lavoro più sottile, ma anche più vero. La credibilità nasce dall’allineamento tra ciò che si è e ciò che si mostra. E questa coerenza, alla fine, diventa visibile anche ai vertici più distratti.
Oggi, mentre l’intelligenza artificiale promette di sostituire competenze e automatizzare processi, emerge una verità semplice ma rivoluzionaria allo stesso tempo: tutto ciò che è umano - empatia, sensibilità, ascolto, fiducia - diventa il vero vantaggio competitivo. L’IA può gestire dati, ma non può costruire relazioni. Può riconoscere pattern, ma non può generare fiducia.
E allora il futuro appartiene a chi saprà unire testa e cuore, competenza e presenza. A chi saprà far convivere professionalità e umanità. Perché, in definitiva, la differenza tra chi sale per merito e chi sale per potere non è nella velocità, ma nella durata. Le carriere fondate sulle relazioni autentiche resistono al tempo. Quelle costruite sull’adulazione, invece, svaniscono con chi le ha concesse.
L’arte di piacere al potere, dunque, a mio avviso, non è un mestiere da imitare, ma una lente attraverso cui osservare l’organizzazione. Chi saprà leggere queste dinamiche potrà scegliere: adattarsi con coscienza o elevarsi con autenticità. In entrambi i casi, la chiave resta la stessa - saper creare legami veri. Perché, anche nell’era degli algoritmi, sarà sempre la fiducia a muovere il mondo.


