L’Approfondimento – L’Agenzia scopre la magia: una vendita, due redditi (risposta a interpello 133/2025)
di Daniele Muritano
La risposta a interpello n. 133/2025 dell’Agenzia delle Entrate affronta il caso di una coppia di coniugi che intendono vendere contestualmente, a due diversi acquirenti, l’usufrutto e la nuda proprietà di un medesimo immobile (appartamento con cantina).
Il tenore del quesito va chiarito. Ciascuno dei coniugi, infatti, è titolare della metà della piena proprietà ed è questa che va venduta. Gli acquirenti, invece, intendono acquistare l'intera piena proprietà ma per diritti diversi (usufrutto e nuda proprietà).
L’Agenzia ritiene che non si tratti di vendita della piena proprietà ma di trasferimenti separati e simultanei di due diritti reali e che tale trasferimento non possa essere considerato un’unica vendita sotto il profilo fiscale. In conseguenza di ciò: da un lato, il corrispettivo ottenuto dalla vendita dell’usufrutto si qualifica come reddito diverso ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lett. h), del Tuir; dall’altro, il corrispettivo derivante dalla cessione della nuda proprietà rientra nell’alveo delle plusvalenze ex articolo 67, comma 1, lett. b) del Tuir (da tassare quindi autonomamente, ai sensi degli articoli 67, comma 1, lett. b), e 68 Tuir, se la vendita avviene entro cinque anni dall’acquisto e non si tratta di vendita dell’abitazione principale). Secondo l’Agenzia, quindi, la vendita della piena proprietà a due acquirenti che l'acquistano per diritti diversi, uno l'usufrutto e l'altro la nuda proprietà, non è "una" vendita. Le vendite sono "due": una vendita dell'usufrutto e una vendita della nuda proprietà, da assoggettare (ai fini Irpef) a tassazione separata ciascuna secondo le proprie regole.
Questa interpretazione si fonda sulle modifiche introdotte dalla legge di Bilancio 2024: il nuovo articolo 67, comma 1, lett. h) del Tuir include tra i redditi diversi i proventi da concessione di usufrutto e costituzione di diritti reali di godimento, mentre l’articolo 9, comma 5, del Tuir – come riformulato – limita l'equiparazione tra cessioni a titolo oneroso e atti a titolo oneroso che costituiscono o trasferisono diritti reali, ai casi non diversamente disciplinati dalla legge.
A supporto della propria tesi, l’Agenzia richiama due pronunce di legittimità in materia di imposte indirette. La Corte di Cassazione, in un caso riguardante la vendita della piena proprietà acquistata da due soggetti diversi, uno per la nuda proprietà e l’altro per l'usufrutto, e l'applicabilità delle imposte ipotecaria e catastale (pretese in misura doppia) ha affermato che «non è possibile ravvisare alcuna necessaria concatenazione di carattere obiettivo tra la vendita del diritto di nuda proprietà ed il contestuale trasferimento del diritto di usufrutto a due beneficiari diversi, bensì una connessione derivante esclusivamente dalla volontà delle parti, con conseguente autonoma tassazione…» (Cass., 15 marzo 2021, n. 7154).
Analogamente, con riferimento anche all’imposta di registro, è stato ribadito che «il trasferimento con unico atto, a soggetti diversi, della nuda proprietà e dell’usufrutto di un unico cespite, dà luogo ad un collegamento negoziale con conseguente autonoma tassazione […] dovendosi individuare, tra le due disposizioni, una connessione fondata sulla mera volontà delle parti» (Cass., 6 maggio 2021, n. 11922).
Un’operazione unitaria di cessione della piena proprietà
L'impostazione dell’Agenzia non convince.
Nel caso oggetto dell'interpello, infatti, come in tutti i casi simili, è palese che ci si trova di fronte a un’unica operazione di cessione della piena proprietà. Ritenere che ciascuno dei coniugi, titolare di una quota della piena proprietà, intenda vendere metà dell'usufrutto e metà della nuda proprietà è pura "invenzione". Trattandosi inoltre di vendita della piena proprietà con due atti separati, i negozi sono addirittura quattro!
Dal punto di vista sostanziale ed economico, i coniugi venditori si spogliano integralmente del diritto di proprietà sull’immobile, trasferendolo per intero a terzi, sia pure suddiviso nelle sue componenti (usufrutto da un lato, nuda proprietà dall’altro). Come sottolineato dagli stessi istanti (sulla scorta di uno studio del Consiglio Nazionale del Notariato), occorre distinguere i casi in cui il venditore mantiene un residuo diritto sull’immobile da quelli in cui si spoglia totalmente dello stesso. Nel primo caso – ad esempio il proprietario che costituisce l’usufrutto e rimane nudo proprietario – vi è una mera compressione del diritto originario e si può parlare, appunto, di “costituzione” di un diritto reale di godimento; nel secondo caso, invece, quando il cedente aliena l’intera proprietà, pur frazionata per volontà degli acquirenti (e non, si badi, del venditore) tra usufrutto e nuda proprietà, l’operazione va qualificata come unica cessione della piena proprietà. Nel nostro caso i venditori non conservano alcun diritto sul bene dopo la vendita: è dunque logico inquadrare ciascuna vendita come unica (= due negozi, non quattro). Il fatto che gli acquirenti siano due per diritti diversi non muta la causa dell’operazione, che resta la vendita (pro-quota) della piena proprietà. La stessa Cassazione (7154/21), pur negando effetti fiscali unitari, ha riconosciuto che i due negozi sono «collegati dalla causa complessiva dell’operazione» (ossia il trasferimento dell’intero cespite a terzi).
La causa unitaria, pertanto, qualifica, nell'ambito delle imposte dirette, il reddito prodotto dalla vendita. Ignorare l’evidente unitarietà economica dell'operazione è un modo di giocare con i concetti, senza curarsi del rispetto di regole di ragionevolezza, proporzionalità, violando – come vedremo – l'affidamento del contribuente e non considerando neppure il senso minimo che ogni regola di diritto deve avere.
L'infondatezza della base giuridica invocata.
L’Agenzia, una volta moltiplicate le vendite in quattro “finte” operazioni, ossia – per ciascun coniuge – la vendita della nuda proprietà e la costituzione di usufrutto, applica a quest'ultimo l’articolo 67, comma 1, lett. h), Tuir, per cui il relativo corrispettivo diventa reddito diverso tassabile.
Questa base giuridica è infondata poiché trascura la reale natura dell’operazione. La norma della lettera h) – come risultante dalla novella del 2024 – era intesa a colpire i proventi derivanti dalla costituzione di diritti reali limitati da parte del proprietario (usufrutto, uso, superficie, etc.), qualificando i relativi corrispettivi quali redditi diversi a prescindere dalla data di acquisto della proprietà del bene. Si tratta di un intervento legislativo (forse) pensato per evitare lacune nel prelievo: dal 2024, ogni qualvolta il proprietario si limita a costituire un diritto reale minore mantenendo la titolarità di altri diritti, il corrispettivo conseguito è tassato come reddito diverso.
Nel caso in esame non vi è alcuna “costituzione” in senso stretto accompagnata dal mantenimento della titolarità di un diritto residuo in capo al disponente: al contrario, il disponente realizza l’intero valore del bene e trasferisce integralmente la proprietà. Applicare rigidamente la lettera h) a un’operazione in cui il cedente non mantiene alcun diritto – come qui avviene – significa forzare il concetto di “costituzione”, snaturando la ratio della norma. La lett. b) dell’articolo 67 Tuir già disciplina le plusvalenze da cessione di beni immobili a titolo oneroso, prevedendo peraltro importanti esenzioni (immobili posseduti da oltre cinque anni, beni pervenuti per successione, immobili adibiti ad abitazione principale per la maggior parte del periodo di possesso, etc.).
Queste esclusioni sono espressione di un principio: la cessione di un’abitazione dopo un certo periodo (o adibita a prima casa) non genera reddito imponibile.
Nel caso dell'interpello, qualificando unitariamente l’operazione come cessione della piena proprietà, il venditore avrebbe potuto beneficiare di tali esenzioni (in assenza di intenti speculativi), mentre l'artificiosa (perché tale è) scomposizione dell'unica vendita determina l’improvvisa inapplicabilità della lett. b) dell'articolo 67 alla parte di corrispettivo imputata all’usufrutto. Ciò mostra come l’interpretazione dell’Agenzia finisca per applicare la lett. h) al di fuori del suo ambito logico, tassando come “reddito diverso” un’operazione che è, nella sostanza, una vendita immobiliare, soggetta semmai alle regole (e alle esclusioni) delle plusvalenze da cessione ex lett. b).
In altri termini, in questi casi non vi è alcuna “costituzione di diritto reale” autonoma, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lett. h), ma un’unica cessione onerosa della proprietà piena (sia pure acquistata per diritti diversi), che va ricondotta – se del caso – alla lett. b) della medesima disposizione. Questo approccio è coerente con la distinzione tra atti che comportano una limitazione parziale del diritto preesistente del cedente e atti che invece ne comportano l’estinzione totale. Nel primo caso (limitazione parziale), è corretto parlare di “costituzione di diritto reale” e tassare il corrispettivo come reddito diverso; nel secondo caso (estinzione totale del diritto del cedente), l’operazione determina un’alienazione integrale del diritto e come tale va trattata fiscalmente. Nel caso di specie i venditori non mantengono alcun diritto sull’immobile ceduto: l’usufrutto venduto non è un diritto “nuovo” che lascia in vita una nuda proprietà in capo ad essi, bensì è parte integrante del diritto di proprietà che essi cedono per intero a terzi. L’applicazione dell’articolo 67, comma 1, lett. h), è palesemente impropria. La stessa Agenzia, del resto, riconosce che civilisticamente «il diritto di usufrutto può essere costituito solo allorquando il soggetto sia titolare della piena proprietà e solo a seguito di detta costituzione, [egli] può trasferire a terzi la nuda proprietà».
Ma la volontà del venditore non è certo quella di costituire prima l'usufrutto e, poi, vendere la nuda proprietà! Egli vende la piena proprietà. È l'Agenzia, che arbitrariamente e "magicamente", con la sola finalità di fare cassa, scompone l'unitaria operazione di vendita in due fasi successive (costituzione dell’usufrutto, poi cessione della nuda proprietà). In ogni caso l’effetto finale è l’alienazione della proprietà nella sua interezza, come dice la stessa Agenzia («effetto estintivo totale della posizione giuridica di partenza» in capo al cedente). Ignorare questo effetto estintivo totale e insistere sulla (letteralmente inventata) duplicità dei negozi significa, in definitiva, elevare a criterio impositivo dirimente una inesistente sequenza formale che, nel concreto, non rivela alcun intento elusivo.
È una costruzione del tutto artificiosa, essendo la vicenda traslativa istantanea. Non solo non si tratta di frazionare nel tempo il godimento del bene con conseguente produzione di redditi autonomi, ma per di più la scomposizione dell’operazione in costituzione di usufrutto seguita dal trasferimento della nuda proprietà può avere un senso logico, ma non cronologico: l’atto viene firmato nello stesso momento e neanche per un attimo (che è una frazione del tempo reale, e non del tempo celestiale) il venditore rimane con la nuda proprietà. Ne consegue che il (presunto) reddito diverso tassabile si produce solo nei concetti, mai nella realtà: appena il venditore ha firmato il suo diritto di proprietà si è estinto. La lett. h) dell’articolo 67 punta al frazionamento temporale reale, e ciò è confermato dallo stesso testo di legge, in cui si legge, nel secondo alinea, che «l'affitto e la concessione in usufrutto dell'unica azienda da parte dell'imprenditore non si considerano fatti nell'esercizio dell'impresa, ma in caso di successiva vendita totale o parziale le plusvalenze realizzate concorrono a formare il reddito complessivo come redditi diversi», il che presuppone che l’imprenditore cedente abbia trattenuto, per sé!, la nuda proprietà, cosa che nel caso oggetto dell’interpello non capita mai.
In definitiva, l’Agenzia delle Entrate opera – solo ai fini fiscali – una surrettizia sostituzione del modello negoziale effettivamente adottato con un altro, del tutto diverso, modellato a fini impositivi.
Incertezza interpretativa e violazione dei principi di buona fede e affidamento
Ulteriormente la soluzione prospettata dall’Agenzia genera una grave incertezza interpretativa ed è in contrasto con i principi di buona fede e legittimo affidamento tutelati dallo Statuto dei diritti del contribuente. In primo luogo, si delinea un trattamento fiscale differenziato per operazioni sostanzialmente identiche: un contribuente che venda un immobile a due soggetti diversi (che acquistano uno per l'usufrutto e l’altro per la nuda proprietà) viene tassato in misura maggiore rispetto a chi vende lo stesso immobile per intero a un unico acquirente, pur ottenendo il medesimo risultato economico. Tale esito spiazzante difficilmente poteva essere previsto dal contribuente medio, soprattutto alla luce della normativa previgente. Si aggiunga che nei due casi il venditore percepisce sempre la stessa cifra e sempre per lo stesso titolo: come può allora parlarsi di intento speculativo? E per quale ragione contributiva si configura un reddito tassabile?
Si consideri, ad esempio, il caso della vendita di un’abitazione posseduta da lungo tempo o adibita a prima casa: il venditore confida di non dover pagare l'imposta sulla plusvalenza perché rientrante nelle esclusioni di cui all’articolo 67, comma 1, lett. b).
Se però quello stesso immobile viene acquistato in modo frazionato (usufrutto a un soggetto e nuda proprietà a un altro), ecco che improvvisamente una parte del corrispettivo diviene imponibile in virtù della lett. h), senza che vi sia stato alcun mutamento nella sostanza dell’operazione né alcuna finalità elusiva.
Questa diversità di trattamento fiscale della medesima operazione, fondato su concettualismi e, in definitiva, un’interpretazione rigorosamente formale della norma, lede l’affidamento dei contribuenti, i quali in buona fede possono aver pianificato l’operazione ignorando un’insidia fiscale così peculiare. Nel caso concreto, i venditori avevano persino interpellato l’Agenzia per ottenere certezza sul regime applicabile; la risposta fornita cristallizza un orientamento che risulta penalizzante e inaspettato.
Orientamenti a supporto di una diversa interpretazione
La tesi qui sostenuta è avallata, in primo luogo, dallo Studio n. 14-2024/T del Consiglio Nazionale del Notariato (richiamato dagli stessi contribuenti nell’interpello) che ha offerto criteri chiari per distinguere, ai fini fiscali, tra cessione e costituzione di diritti reali di godimento dopo la riforma del 2024. Lo Studio propone un approccio “sostanzialistico”, basato sugli effetti dell’operazione: si deve verificare se, dopo l’operazione, il diritto originario del cedente risulti estinto totalmente oppure solamente limitato/compresso.
Il Notariato conclude che, qualora il proprietario si sia spogliato dell’intero suo diritto (come accade nel caso oggetto dell'interpello) non si è in presenza di una “costituzione di diritto reale” rilevante ai sensi della lett. h), bensì di una cessione unitaria, con applicazione delle regole ordinarie sulle plusvalenze immobiliari. Questo orientamento è pienamente coerente con la tesi qui esposta e meritava considerazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, quantomeno in un’ottica di interpretazione equilibrata della nuova norma.
Le pronunce della Corte di Cassazione citate dall’Agenzia (nn. 7154/2021 e 11922/2021) in primo luogo si riferiscono alle imposte indirette e, in particolare, alle imposte ipotecaria e catastale, che l'Agenzia ritiene dovute due volte nonostante sia unica la formalità della trascrizione e unica la voltura catastale; in secondo luogo si riferiscono a casi disciplinati dalle norme anteriori all'entrata in vigore dell’articolo 10, commi 1, 2 e 3 del Dlgs n. 23/2011, che forfetizza nella misura di euro 50 ciascuna le imposte ipotecaria e catastale. Queste imposte, a partire dal 2011, prescindono dalla capacità contributiva. L’articolo 21 (atti che contengono più disposizioni) del Dpr n. 131/1986, invece, serve a tassare la manifestazione di capacità contributiva: solo quando un documento contenga più “atti”, ciascuno espressione di autonoma e piena (e dunque non agevolata) capacità contributiva, l’imposta si applica distintamente a ciascuno di essi (articolo 21, comma 1) o alla sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa (articolo 21, comma 2).
Pertanto, poiché la trascrizione è sottoposta ad imposta fissa, manca la ratio dell’articolo 21 più volte citato: la manifestazione di una capacità contributiva assoggettabile a tassazione proporzionale.
A conferma di ciò la recentissima Cass. 27 marzo 2025, n. 8131 richiama Cass. 16664/2021 la quale nel premettere che le imposte ipotecaria e catastali «possono essere definite le imposte relative agli atti cui conseguono la formalità di trascrizione, iscrizione, rinnovazione, cancellazione ed annotazione eseguite nei pubblici registri immobiliari, nonché la formalità della voltura catastale» e che l'imposta ipotecaria è un'imposta indiretta che si applica in occasione della esecuzione delle formalità presso i registri immobiliari, ha, del resto, osservato che l'obbligazione di imposta si basa «non nella redazione di un atto soggetto a formalità di trascrizione e voltura, ma proprio nella formalità in quanto tale». In conclusione: una trascrizione, una imposta ipotecaria; una voltura, una imposta catastale.
In ogni caso, traslare automaticamente i (discutibilissimi) principi affermati dalla Corte di Cassazione nei casi decisi nel 2021, nell'ambito delle imposte dirette, è fuorviante. Le imposte sui redditi, infatti, richiedono di qualificare la natura del reddito prodotto dall’operazione nel suo complesso: nel caso di specie, il reddito generato per i venditori è assimilabile a una plusvalenza da cessione di immobile, non a due redditi eterogenei (uno da cessione di un diritto, l’altro da costituzione di un diritto). La stessa Corte di Cassazione, come visto, ha riconosciuto l’unitarietà economica di tali vendite (parlando di “causa complessiva” unica), pur traendone conclusioni diverse ai fini delle imposte indirette.
È auspicabile che, ove simili controversie giungano al vaglio dei giudici tributari, prevalga una valutazione in concreto della natura dell’operazione, tenendo conto dell’assenza di intenti elusivi e della necessità di dare attuazione ai principi di ragionevolezza e capacità contributiva. Va ricordato, a tale proposito, che l’articolo 67 del Tuir già contiene al proprio interno un bilanciamento anti-elusivo (il limite temporale dei cinque anni, reintrodotto per evitare intenti speculativi di breve periodo). Far scattare una tassazione extra-lettera b) in un caso in cui quel limite temporale sia rispettato (proprietà detenuta da oltre cinque anni) o in cui ricorrerebbe l’esenzione per abitazione principale, significa colpire situazioni che il legislatore fiscale ha volutamente escluso dalla tassazione delle plusvalenze.
Inoltre, va segnalato un ulteriore rischio: quello di innescare contenziosi civilistici tra le parti coinvolte nella compravendita.
Se il corrispettivo concordato tra venditori e acquirenti è stato pattuito con riferimento all’intera piena proprietà, è verosimile che i venditori non abbiano preventivato la tassazione separata del prezzo relativo all’usufrutto come reddito diverso.
Non solo. Il contribuente può scoprire di essere tenuto a pagare l'imposta sulla plusvalenza il giorno della vendita se nel contratto preliminare c’è una riserva di nomina!
Tale sopravvenuta tassazione, inaspettata e rilevante sotto il profilo economico, potrebbe indurre i venditori a richiedere un’integrazione del prezzo o la revisione delle pattuizioni contrattuali. Viceversa, gli acquirenti potrebbero eccepire l’erroneità della rappresentazione fiscale fornita in sede di trattativa, soprattutto se il contratto conteneva clausole di manleva o dichiarazioni sul trattamento fiscale previsto. Non va poi escluso che l'acquisto di usufrutto e nuda proprietà, come spesso accade, dipenda da esigenze familiari o successorie: un’imposizione inaspettata può compromettere l’equilibrio dell’intera operazione, generando contrasti tra coeredi o tra familiari acquirenti.
In definitiva, la qualificazione della vicenda da parte dell'Agenzia, disancorata dalla sua realtà economica, non solo produce effetti tributari discutibili, ma espone le parti a contenziosi di natura contrattuale o risarcitoria, con ricadute pratiche potenzialmente molto rilevanti e messa a rischio della stabilità di rapporti negoziali costruiti in base a legittime e ragionevoli aspettative.