“Lamento” - LE PAROLE DI BLAST/2
di Stefano Ricca
Lamentum. Dal latino, piangere, gemere. La radice è un’onomatopea: il suono stesso del pianto che diventa parola. Ma già nell’etimologia c’è tutto. Un grido che nasce dal dolore autentico e che può trasformarsi in puro rumore, suono fine a sé stesso.
La parola viene dal verbo lamentare, che significa esprimere il proprio dolore. Ma c’è una differenza sostanziale tra esprimere un dolore e lamentarsi. La prima è comunicazione. La seconda è strategia.
Il lamento è virale. Si diffonde, si amplifica, trasforma l’ambiente in una camera d’eco. Negli uffici diventa un rumore di fondo costante: sospiri, proteste sommesse, obiezioni preventive. “Perché tocca sempre a me?”, “Non funziona nulla qui dentro”, “Ma com’è possibile?”. Un brusio che inquina l’aria come il fumo passivo.
E funziona. Il lamento ottiene risultati. Per questo diventa professionale.
È lo stesso meccanismo del bambino. Il neonato piange, il genitore arriva. Sopravvivenza pura. Ma quando il bambino capisce che il pianto funziona anche senza fame, senza sonno, senza nulla? Che basta piangere per ottenere attenzione? Il pianto si professionalizza. Diventa strumento.
Negli uffici è identico. Il dipendente si lamenta del carico e ottiene redistribuzione. Il titolare si lamenta dei dipendenti. Il socio degli altri soci. Il cliente dei tempi. Il fornitore dei pagamenti. Tutti si lamentano. Tutti ottengono qualcosa.
La parola lamento ha perso la sua purezza. Non esprime più dolore. Esprime richiesta mascherata da sofferenza.
Il punto è che accontentare chi si lamenta costa meno che gestire il conflitto. Richiede meno energia, meno tempo, meno fermezza. Così il lamento diventa moneta di scambio. Più ti lamenti, più vieni ascoltato. Non importa se il problema esiste davvero. Importante è segnalarlo, protestare, farsi sentire.
Abbiamo trasformato la parola lamento in arma. E l’abbiamo resa così efficace che ora distinguere tra chi soffre davvero e chi usa il dolore come leva è quasi impossibile.
Nanni Moretti in Palombella rossa parlava delle “spallucce” dei tennisti italiani anni Cinquanta. “Ho perso per il vento, per il sole, per la rete troppo alta…”. Sempre colpa degli altri. Mai responsabili. Sempre vittime.
Il lamento è diventato questo: un modo per non essere mai protagonisti. Per dare sempre la colpa a qualcun altro. Per evitare di guardare quello che possiamo fare noi.
La parola lamento merita di tornare alla sua origine. Al dolore vero. A quello che va espresso perché esiste, non perché conviene. Dovremmo restituirle dignità. Dovremmo imparare a distinguere tra chi ha davvero un problema e chi sta usando il lamento come manipolazione.
Ma questo richiede qualcosa che scarseggia: tempo, attenzione, coraggio. Richiede di guardarsi allo specchio e chiedersi: “Quando uso questa parola, sto comunicando un dolore o sto evitando di risolverlo?”
È più faticoso? Sì. Ma l’alternativa è continuare a svuotare le parole di significato. A trasformare tutto in rumore. E allora sì che avremo davvero qualcosa di cui lamentarci.


