L’acquisto di beni e servizi con le criptovalute è un’operazione realizzativa
di Maurizio Nadalutti
Forse non è ancora chiaro che le criptovalute non possono essere assimilate alle valute aventi corso legale (moneta fiat).
Altrimenti non si spiegherebbe la recente interrogazione parlamentare n. 5-03772, con la quale è stata proposta la tesi dell’irrilevanza fiscale dell’acquisto di beni e servizi mediante criptovalute, alla pari delle medesime operazioni realizzate con moneta fiat, chiedendo conferma al Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Tuttavia, le valute virtuali non possono essere qualificate come valuta con corso legale, avendo diverse funzioni: non si tratta di un mezzo di pagamento, ma di un mezzo di scambio oppure (prevalentemente) uno strumento di investimento.
Così che, l’eventuale plusvalenza che si origina per effetto dell’utilizzo di una criptovaluta ai fini dell’acquisto di un bene o servizio è certamente da sottoporre ad imposizione.
Infatti, i mezzi di pagamento – come le valute aventi corso legale – possono essere utilizzati in qualsiasi momento e ovunque per estinguere un debito, mentre le criptovalute risultano, più propriamente, un mezzo di scambio.
Ciò è confermato anche dalle definizioni di criptovaluta che sono state inserite nel nostro ordinamento. Ad esempio, nel quadro della disciplina sull’antiriciclaggio, l’articolo 1, comma 2, lettera qq), del Dlgs 90/2017, prescrive che per valuta virtuale si intende “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
Sullo stesso solco, nell’articolo 1, del Dlgs 184/2021 (attuativo della direttiva relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dal contante), le criptovalute vengono definite come “rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è legata necessariamente ad una valuta legalmente istituita e non possiede lo status giuridico di valuta o denaro, ma è accettata da persone fisiche o giuridiche come mezzo di scambio, e che può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente”.
Cosicché, nel momento in cui un soggetto acquista dei beni e dei servizi mediante l’utilizzo di criptovalute, non sta effettuando un pagamento, ma, sostanzialmente, una permuta.
La permuta, ai sensi dell’articolo 1552 del codice civile, è il contratto che ha ad oggetto il trasferimento reciproco della proprietà di cose o di altri diritti, da un contraente all'altro.
In buona sostanza, si tratta di uno scambio “alla pari” di beni, servizi o diritti, senza l’uso di denaro.
Dal punto di vista tributario, in generale, le permute effettuate da soggetti non imprenditori non generano materia imponibile, a meno che non vi sia un intento speculativo, che si può configurare anche per presunzione di legge (permuta di fabbricati, di partecipazioni, ecc…).
In relazione alle cripto-attività, il legislatore, con la legge di bilancio 2023, nel definire una specifica disciplina ad esse dedicate, ha espressamente stabilito, attraverso la disposizione recata dall’articolo 67, comma 1, lettera c-sexies) del Tuir, che risultano redditi diversi “le plusvalenze e gli altri proventi realizzati mediante rimborso o cessione a titolo oneroso, permuta o detenzione di cripto-attività, comunque denominate”. In tale contesto, è poi stato specificato che “non costituisce una fattispecie fiscalmente rilevante la permuta tra cripto-attività aventi eguali caratteristiche e funzioni”.
Pertanto, nell’ambito delle operazioni realizzate con l’utilizzo di valute virtuali, (anche) le permute – eccetto le conversioni “cripto su cripto” e, più in generale, tutte le operazioni tra cripto-attività aventi medesime caratteristiche e funzioni – risultano fiscalmente rilevanti.
La scelta del legislatore è condivisibile. Altrimenti si potrebbero verificare situazioni caratterizzate da ingiustificate – e illegittime – disparità di trattamento.
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui un soggetto, rivolgendosi ad un venditore che accetta il pagamento – o meglio lo scambio – con valuta virtuale, acquista un bene che vale 100 utilizzando una criptovaluta acquistata a 80.
L’operazione origina senz’altro una plusvalenza pari a 20, che va quindi sottoposta ad imposizione, come confermato anche dalla risposta del MEF all’interrogazione parlamentare n. 5-03772 del 26 marzo 2025 riportata all’inizio.
D’altronde, se il medesimo soggetto di cui sopra, poco prima di effettuare l’acquisto, convertisse in euro la stessa criptovaluta e poi comperasse il bene in euro, la plusvalenza che si genererebbe dal cambio in valuta fiat va tassata in base alla previsione di cui all’articolo 67, comma 1, lettera c-sexies) del Tuir.