La vittima di stalking si riavvicina temporaneamente al suo persecutore: il reato non è escluso
di Francesca Negri
Lo stalking, cioè il reato di “atti persecutori”, sanzionato all’articolo 612 bis del codice penale, si verifica ogni volta che una persona, con comportamenti reiterati nel tempo, minaccia o molesta la vittima, in modo da determinarle un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerarle un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto -o di persona al medesimo legata da relazione affettiva- ovvero in modo da costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.
Le minacce o le molestie cui fa riferimento la norma possono assumere le più svariate forme: dall’invio di numerosi e non graditi messaggi, ai pedinamenti, agli appostamenti, agli insulti, all’invio di regali non voluti, fino alle minacce vere e proprie.
Si tratta però di un reato “di evento” e quindi le minacce e/o le molestie appena descritte a titolo di esempio, non sono sufficienti. Occorre anche che si verifichi almeno una delle conseguenze indicate nella norma stessa e sopra illustrate.
In particolare, al processo bisognerà dimostrare che la vittima ha avuto paura, per sé o per i propri congiunti, oppure che si trova in uno stato di ansia per cui, per esempio, è stata costretta a intraprendere un percorso di sostegno psicologico o ad assumere farmaci per dormire, eccetera. Oppure, ancora, dovrà essere raggiunta la prova che la vittima ha modificato le proprie abitudini di vita, al punto, sempre a titolo esemplificativo, da non uscire più sola la sera, da cambiare la palestra scelta per i propri allenamenti, o la strada per andare al lavoro, e via dicendo.
Poiché lo stalking è un delitto che spesso si verifica nel contesto di persone che sono state legate da una relazione affettiva, una delle possibili situazioni che si possono verificare è quella in cui il persecutore chiede insistentemente di recuperare il rapporto. La vittima si fa convincere a riprendere un dialogo con l’aggressore, e si riavvicina, magari solo temporaneamente, nella speranza di ottenere una serenità nel rapporto con lui.
Nei casi di questo tipo è molto facile che l’imputato, nel tentativo di riscrivere la vicenda in modo a sé più favorevole, faccia leva su questo aspetto, provando a collocarla in un contesto di conflittualità di coppia -che non è reato- e non di persecuzione, in cui i momenti di tranquillità si alternano ai litigi, con semplici e non illecite richieste di continuare la relazione sentimentale con la vittima.
Ma in queste situazioni, come si comporta la giurisprudenza?
In particolare, se la vittima, dopo essere stata oggetto di comportamenti persecutori, e averli denunciati, si riavvicina all’ex compagno, riallaccia un dialogo con lui, accetta uno o più appuntamenti o addirittura riprende, seppur temporaneamente, una coabitazione, si può affermare che il reato viene meno?
Anche di recente, riportandosi a un proprio specifico orientamento sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato che “il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non interrompe l’abitualità del reato, né inficia la continuità delle condotte, quando sussista l’oggettiva e complessiva idoneità delle stesse a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica in una delle forme descritte dall’art. 612 bis c.p.” (cfr. Cass. Pen. sez. V, n. 2128/2024 e Cass. Pen. sez. V, n. 17240/2020).
Il fatto che la vittima, poi, abbia avuto momenti transitori di attenuazione del malessere, durante i quali ha ripristinato un dialogo con il persecutore, non la rende meno attendibile nelle sue dichiarazioni (cfr. per es. Cass. Pen., sez V, n. 5313/2014). Ciò in quanto, continua la Corte, è stata in grado di spiegare, con immutata forza persuasiva, che il proprio riavvicinamento e la coabitazione “avevano rappresentato l’occasione per un definitivo e insostenibile peggioramento dei rapporto con l’imputato, che aveva ripreso con maggior vigore ad attuare le condotte moleste” (Cass. Pen. sez. V, n. 2128/2024).
In sintesi, la Suprema Corte ha chiarito che l’ambivalenza dei sentimenti della vittima (tipica, in questi contesti) o la ripresa temporanea di un rapporto con lo stalker non rendono automaticamente la condotta persecutoria penalmente irrilevante.
Mi pare un orientamento condivisibile poiché tiene conto e sottolinea le peculiarità del fenomeno dello stalking.
La vittima di questo reato, infatti, può tornare a vedere il suo persecutore per una serie di motivi complessi, spesso legati a fattori psicologici e relazionali, come per esempio la speranza di mantenere una forma di controllo sulla situazione o l’auspicio di un cambiamento nel comportamento del persecutore, oppure ancora la nostalgia della relazione conclusa, o il timore di rimanere sola.
Motivi assolutamente comprensibili, che tuttavia non possono in alcun modo eliminare l’illiceità del comportamento, che resta quindi un reato punito con la sanzione della reclusione.