La violenza sulle donne: parole nuove e dieci segnali per riconoscerla
di Francesca Negri (*)
Quando si arriva al 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, si tende a ripetere sempre le stesse frasi sulla violenza di genere e sui femminicidi. Anche perché, purtroppo, alcuni numeri allarmanti tendono a ripetersi. L’ultimo Rapporto Istat conferma che la violenza non è affatto diminuita: ancora oggi, come negli anni passati, una donna su tre, nella sua vita, ha subito almeno una violenza fisica o sessuale.
Non intendo certo affermare che questa non sia una Giornata importante, ma se da un lato celebra una giusta e doverosa presa di coscienza collettiva, dall’altro nasconde un rischio di “musealizzazione”, cioè di rappresentare semplicemente un anniversario, svuotandolo del significato drammatico, attuale e quotidiano che invece ha.
Credo, quindi, che lo sforzo debba essere quello di trovare e usare parole nuove, che anche nella sostanza contribuiscano a costruire una nuova storia dei rapporti tra le persone, fondate sul rispetto della donna e della differenza di genere. In questa direzione, un passo importante è quello di diffondere l’educazione nelle scuole. Ed è ciò che il Presidente del Tribunale di Milano, il dottor Fabio Roia, da sempre in prima linea nella lotta alla violenza sulle donne, suggerisce e che io condivido e sostengo da tempo. Il dottor Roia sottolinea inoltre – e anche qui a ragione – che c’è un problema di linguaggio, «nel senso che magari alcuni sono spaventati dall’espressione “educazione sessuale”: forse se si chiamasse “educazione alle relazioni” sarebbe meno osteggiata».
Un ulteriore rischio di “musealizzazione”, a lungo andare, è quello di portare il ragionamento sui massimi sistemi. Invece, sempre di più – e i dati lo dimostrano – c’è anche bisogno di un approccio molto pratico. Di capire, con parole semplici e non scontate, come fare a riconoscere una relazione tossica e, ancor prima, a non crearla.
Anche in questo caso non posso che condividere le parole di una persona di grande esperienza e autorevolezza con la quale ho la fortuna di lavorare da moltissimi anni: Alessandra Kustermann, fondatrice del primo centro antiviolenza pubblico in Italia – SVSeD della clinica Mangiagalli di Milano – e attuale presidente della cooperativa sociale SVSDAD. La dottoressa ha stilato un “nonalogo” (a proposito di parole originali), un decalogo in nove punti: nove segnali per riconoscere una relazione tossica, nove atteggiamenti che devono preoccupare.
Il primo è l’indifferenza: “se la donna ‘sgarra’, l’uomo finge di perdere interesse nei suoi confronti.” Ecco il primo senso di colpa, perché la donna si convince di aver fatto qualcosa di sbagliato e inizia ad assecondare le imposizioni del partner per riaccendere il suo interesse. È una prima sottile e subdola prevaricazione che facilmente arriva al ricatto, il secondo campanello d’allarme, ovvero “o fai ciò che dico io oppure ti lascio”.
Si passa così, e anche piuttosto velocemente, all’umiliazione, facendo sentire la partner una persona senza valore, e alla vera e propria manipolazione, attraverso un abile comportamento finalizzato a soggiogare e condizionare la donna. La gelosia, continua Kustermann, è quasi sempre presente in ogni caso di femminicidio, e non esiste una dose minima accettabile: non andrebbe mai subita, perché, in realtà, si tratta soltanto di una forma di controllo da parte del partner, il quale lo esercita anche sulle spese, sugli spostamenti, sulle amicizie, sul modo di vestire, di truccarsi, persino di comportarsi.
Anche l’intrusione è tipica espressione di violenza: da quella fisica a quella della sfera personale e della privacy, anche sui social. Spesso accade che alcune ragazze consegnino la password dei propri account al fidanzato, considerandolo “una prova d’amore”. Oppure, che vengano costrette a condividere il codice di sblocco del telefono, o, ancora, a farsi geolocalizzare o a videochiamare per dimostrare il luogo in cui si è e con chi. Il passo verso l’isolamento è breve, e quindi deve destare allarme non appena inizia a verificarsi; solitamente è progressivo e comincia con l’allontanamento dalla migliore amica e dalla compagnia di amici per arrivare a quello dai familiari. In questo modo, la vittima non ha più riferimenti e diventerà sempre più fragile e vulnerabile nelle mani del partner.
Infine si arriva all’intimidazione “se mi lasci ti uccido” che ha lo scopo di costringere la donna a rimanere nella relazione pur non volendolo. Aggiungerei, a questo punto, un decimo campanello d’allarme: la colpevolizzazione, che si può realizzare in modi differenti, compresa l’esternazione “Se mi lasci, MI uccido”, una declinazione dell’intimidazione per tenere la persona vincolata, stimolando la paura di poter diventare la causa della morte del partner: “Se si ammazza, è colpa mia”.
Credo che questo decalogo possa, e debba, diventare un vademecum da diffondere. Non solo però fra le donne, che faranno bene a imparare a riconoscere i segnali per non rimanere intrappolate in una relazione di questo tipo, ma soprattutto fra gli uomini, che quel genere di relazioni non devono proprio imporle.
È il paradigma che deve cambiare: non occorre solamente creare un sistema protettivo, ma bisogna fare in modo che, costruendo nuovi codici di comportamento, non ci sia più la necessità di doversi difendere.
(*) Oggi Blast esce con tutti gli articoli scritti da autrici, perché riteniamo che la consapevolezza del valore della donna, anche da parte del lettore, possa in qualche modo contribuire ad arginare le varie forme di violenza di genere.


