La trappola dell'armonizzazione: perché il CCNL resta un vincolo non negoziabile
di Gabriele Silva
In molte realtà aziendali italiane il contratto collettivo viene considerato un riferimento modulabile: se cambia l’organizzazione, se mutano i costi, o se la concorrenza impone nuove strategie, si pensa di poterlo sostituire con uno più “adatto”, magari siglando un accordo aziendale condiviso da più sigle sindacali. Una logica comprensibile sul piano gestionale, ma difficilmente compatibile con la struttura del nostro sistema di relazioni industriali.
L’ordinanza n. 29737/2025 della Corte di Cassazione chiarisce in modo netto questo profilo: anche in presenza di un accordo di armonizzazione firmato in azienda, non è possibile sostituire un CCNL prima della sua scadenza naturale. Lo impedisce la natura stessa del contratto collettivo, la cui durata non può essere anticipatamente modificata né dal datore di lavoro, né da una maggioranza sindacale interna, ma solo dalle stesse parti stipulanti a livello nazionale.
Perché il cambio anticipato è illegittimo
Il caso riguardava una società che applicava il CCNL Metalmeccanici a parte della propria forza lavoro e che, tramite un accordo aziendale, aveva deciso di sostituirlo con il CCNL Terziario prima della scadenza. I giudici del merito, poi confermati dalla Cassazione, hanno ritenuto questa condotta equivalente a una disdetta unilaterale del contratto collettivo, operata anticipatamente e quindi non consentita.
La Corte richiama un principio costante: la disdetta del CCNL spetta solo alle parti stipulanti del contratto, non al singolo datore di lavoro, anche se supportato da un accordo aziendale. La durata del contratto non è dunque negoziabile localmente, salvo un’eccezione: se il CCNL non prevede un termine di efficacia, ipotesi non ricorrente nel caso deciso.
La maggioranza sindacale aziendale non basta
Nel giudizio, l’azienda invocava il rispetto delle regole previste dall’accordo interconfederale del 2014 sulla rappresentanza, sostenendo che l’accordo aziendale fosse stato concluso a maggioranza e dunque legittimamente applicabile a tutti i lavoratori.
La Cassazione riconosce il valore generale degli accordi di secondo livello firmati a maggioranza, ma precisa che ciò non consente di incidere sulla durata di un CCNL nazionale ancora vigente. In altre parole: l’efficacia generalizzata dell’accordo aziendale non è lo strumento per disapplicare in anticipo il contratto nazionale.
La firma dei lavoratori non convalida il cambio
Altro passaggio significativo riguarda le dichiarazioni firmate dai lavoratori sotto la dicitura “per ricevuta e accettazione”. L’azienda sosteneva che tale formula implicasse un consenso individuale all’adozione del nuovo CCNL.
La Corte esclude questa interpretazione: la formula ha valore di presa visione, non di adesione negoziale a un cambiamento del regime collettivo. La firma del lavoratore non può dunque essere utilizzata come strumento surrogatorio per anticipare la disapplicazione del CCNL.
Un profilo anche sindacale
La decisione assume rilievo anche sotto l’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori. Secondo la Cassazione, l’accordo aziendale ha inciso sulle prerogative di una sigla sindacale – in questo caso la FIOM – che si è vista superata da un’intesa di cui non era parte. Questo comportamento è stato qualificato come condotta antisindacale, perché ha compromesso l’efficacia dell’azione della sigla, il suo ruolo rappresentativo e la sua immagine nei confronti dei lavoratori.
Conclusione: certezza del contratto, stabilità delle relazioni
La pronuncia ribadisce un principio essenziale per la governance delle relazioni industriali: il CCNL non è uno strumento gestionale adattabile alle esigenze contingenti dell’impresa, ma un pilastro negoziale la cui durata non è disponibile localmente. La ricerca di soluzioni organizzative o retributive alternative passa attraverso gli strumenti dell’autonomia collettiva, ma non può alterare unilateralmente – neppure con accordi di maggioranza – la durata dell’impegno nazionale assunto dalle parti.
In un contesto economico che spinge spesso alla flessibilità, la Cassazione riafferma il valore della certezza contrattuale: l’equilibrio tra interessi contrapposti non si modifica localmente sulla base di convenienza, ma nel rispetto dei tempi e delle sedi proprie della contrattazione collettiva.


