La scarsa adesione al CPB? Forse è meglio così (per le casse erariali)
di Simona Baseggio e Barbara Marini
I numeri sono arrivati, e sono netti: le adesioni al Concordato Preventivo Biennale (CPB) per il biennio 2025–2026 si sono fermate a circa 50 mila. Un dato in forte calo rispetto all’anno precedente e che, a prima vista, potrebbe essere letto come un insuccesso. Eppure, a volere guardare le cose da una diversa prospettiva, non è detto che per le casse dello Stato sia una cattiva notizia. Anzi, forse è esattamente il contrario.
Il CPB è nato come strumento di emersione. Un meccanismo attraverso cui l’Amministrazione finanziaria propone ai contribuenti, sulla base di indicatori statistico-economici, un reddito da dichiarare in via preventiva e da tassare a prescindere da quanto sarà effettivamente realizzato. La promessa implicita era chiara: in cambio dell’adesione, niente accertamenti e uno scudo protettivo per chi fino a quel momento aveva avuto margini di opacità. Il presupposto, teorico ma mai troppo dichiarato, era che l’“evasore razionale” avrebbe preferito concordare una base imponibile magari anche più alta di quella che avrebbe dichiarato spontaneamente, pur di guadagnare in tranquillità.
E tuttavia, come spesso accade quando il disegno è ambizioso ma il contesto è quello reale, le cose potrebbero andare (sono andate) diversamente. Cosa dovremmo dire se, per quanto si possa oggi solo inferire, in attesa dei dati ufficiali, il CPB non fosse effettivamente stato sfruttato da coloro per i quali era stato pensato? Se la scarsa adesione fosse in parte riconducibile alla difficoltà di intercettare proprio quei soggetti meno trasparenti a cui il meccanismo sembrava rivolgersi? Solo un’opportunità, ben calcolata, per chi già pagava e ha intuito un margine di vantaggio. Il grosso delle adesioni, infatti, sembra provenire da soggetti che avevano tutto l’interesse a “congelare” un’imposizione fiscalmente conveniente sulla base di redditi in crescita, oppure da coloro che hanno potuto utilizzare lo strumento come grimaldello per regolarizzare con eleganza alcune criticità pregresse.
Il paradosso, allora, si farebbe evidente: l’Amministrazione ha proposto un meccanismo volto a intercettare materia imponibile altrimenti sommersa, ma ha finito probabilmente col ridurre il prelievo proprio nei confronti dei soggetti più collaborativi e meno opachi. Non solo non ha recuperato evasione: ha raccolto di meno. Con buona pace della logica economica e dell’efficienza del sistema tributario.
Ecco perché, nel silenzio prudente di questi giorni, si può forse leggere un segnale positivo: meno adesioni, meno danni (per le casse erariali). Se l’accesso al concordato è stato percepito soprattutto come un’occasione di ottimizzazione fiscale, allora è persino auspicabile, nell’ottica dell’equità complessiva, che l’adesione sia rimasta confinata. Forse è anche un indicatore, indiretto ma eloquente, di quante imprese oggi si sentano davvero in grado di stimare i propri redditi con un margine di certezza accettabile
Non ci troviamo dunque di fronte a un insuccesso, ma, sia concesso il paradosso, a un fallimento utile. Se i contribuenti che hanno aderito sono pochi, forse è perché hanno capito che il vantaggio non c’era. Oppure, peggio, che il vantaggio c’era solo per chi poteva manovrare i numeri (non pare il caso di dilungarci sulla “evasione creativa” a cui apre le porte lo strumento…).
In entrambi i casi, che siano rimasti in pochi non può che far sollevare un sospiro di sollievo.
Il giudizio sul CPB rimane comunque sospeso, in attesa dei dati a consuntivo sulle dichiarazioni, ma un dato già ora è chiaro: il vero rischio non era che pochi aderissero, ma che aderissero in troppi. E con le motivazioni sbagliate.
Alla fine, per lo Stato, meno è stato davvero più.