Con la Risoluzione n. 50/E del 3 ottobre 2025, l’Agenzia delle Entrate interviene nuovamente sul tema del rimborso dell’IVA non dovuta, fornendo un’interpretazione dell’art. 30-ter del DPR 633/72 che appare sempre più consolidata e restrittiva.
Il documento, adottato a fronte di reiterate richieste di chiarimenti, conferma che solo il cedente o prestatore è legittimato a presentare istanza di rimborso dell’IVA indebitamente versata. Il cessionario o committente, anche quando ha sostenuto l’onere economico dell’imposta poi rivelatasi indebita, non può rivolgersi direttamente all’amministrazione finanziaria, ma deve eventualmente agire verso il fornitore, in via di regresso, secondo i canali del diritto civile (cfr. risposta interpello 66 dell’11 marzo 2024).
L’Agenzia si sofferma in particolare sul comma 2 dell’art. 30-ter, che circoscrive la possibilità di rimborso all’ipotesi in cui il cedente abbia restituito al cessionario l’imposta indebitamente applicata, a seguito di accertamento definitivo, e presenti istanza entro due anni da tale restituzione. Tale lettura viene rappresentata come funzionale al rispetto del principio di neutralità dell’imposta, in quanto il soggetto obbligato al versamento dell’IVA è e resta il cedente/prestatore.
Tuttavia, questa impostazione solleva non poche perplessità, a partire dalla lettura sistematica della norma. Il comma 1 dell’art. 30-ter ammette che “il soggetto passivo” possa chiedere la restituzione dell’imposta non dovuta: espressione ampia, che nel lessico dell’IVA comprende sia il cedente che il cessionario, trattandosi entrambi di soggetti passivi. La restrizione soggettiva compare solo al comma 2, in un contesto ben più specifico.
Ma le criticità emergono anche sul piano sovranazionale. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha più volte affermato che, nei casi in cui risulti impossibile o eccessivamente difficile per il committente recuperare l’IVA indebitamente pagata al fornitore – ad esempio per insolvenza, irreperibilità o comportamenti omissivi – lo stesso debba poter chiedere il rimborso direttamente all’erario. Lo ha ribadito, tra le altre, nella sentenza Humda (C-397/21), nella sentenza Michael Schütte (C-453/22).
In questo contesto, l’orientamento della prassi nazionale si espone a rilievi di compatibilità con il diritto unionale, oltre che a un evidente scarto rispetto alla lettera della disposizione interna. Il rischio è quello di una irragionevole asimmetria: il soggetto che ha materialmente sostenuto l’esborso dell’IVA potrebbe trovarsi privo di tutela effettiva, se non attraverso un’azione risarcitoria civilistica spesso incerta e, nei fatti, poco praticabile.
Così facendo, l’art. 30-ter rischia di smarrire la propria funzione fisiologica di correzione degli errori impositivi, trasformandosi in una norma a efficacia selettiva: efficace solo se il fornitore è collaborativo e solvente. In tutti gli altri casi, l’imposta – pur indebita – rischia di rimanere a carico di chi l’ha versata, senza possibilità di ristoro, e in contrasto con l’architettura del sistema IVA.
Una latitudine interpretativa, dunque, che finisce per compromettere la coerenza interna della disposizione e la sua armonizzazione con i principi del diritto dell’Unione. Sarebbe forse il momento di riportare l’attenzione sulla portata originaria del comma 1, e sulla necessità di leggere la norma in chiave funzionale e sistemica, non solo per chi emette la fattura, ma anche per chi la subisce.