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Economia

La responsabilità dell’imprenditore nel passaggio generazionale

di Diego Zonta

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Blast
nov 27, 2025
∙ A pagamento

Il momento della successione o, più in generale, del passaggio di proprietà dell’impresa, si rivela spesso un tabù: un bivio complesso tra continuità familiare e cessione al miglior offerente. Una decisione difficile per il fondatore, il quale, in taluni casi, pur potendo incassare anche parecchi milioni da una ipotetica cessione a terzi, sceglie di non vendere. Sceglie, invece, di affidare la propria “creatura” a una fondazione, un ente pensato non per massimizzare il profitto, ma per custodire un’identità. Non è un romanzo: è la storia di alcune imprese iconiche. È la storia di un atto di gestione finale, dove il fondatore ha a cuore che il futuro dell’azienda mantenga intatti i suoi valori, la sua “anima”, ben oltre la sua stessa esistenza. È la scelta di chi vuole rendere l’impresa quasi immortale, proteggendola da scalate ostili, smembramenti o, peggio, dalla diluizione del suo DNA originario.

Il precedente che ha fatto scuola: il caso Faac

Per capire la portata di questa scelta, bisogna tornare al 2012, a Bologna. Muore Michelangelo Manini, il geniale inventore che nel 1965 aveva fondato la Faac, leader mondiale dei cancelli automatici. Manini, senza figli, lascia tutti di stucco: il (suo) 66 per cento della società da 200 milioni di fatturato, viene lasciato in eredità nientemeno che all’Arcidiocesi di Bologna. Le polemiche iniziali (”La Chiesa farà l’imprenditore?”) non furono tenere. Ma il testamento di Manini fu lungimirante. Chiedeva due cose: che l’azienda non fosse smembrata o venduta per almeno 10 anni e che i profitti fossero destinati a opere caritative. La Curia bolognese, di fatto, divenne l’azionista di maggioranza, ma gestì la proprietà con intelligenza manageriale. Il risultato? La Faac, sotto questa “proprietà” anomala, non solo è sopravvissuta, ma è cresciuta esponenzialmente. Ha intrapreso una campagna di acquisizioni strategiche e oggi fattura 700 milioni con un EBITDA passato da 30 a 120 milioni, diventando così un caso di studio globale. L’azienda opera sul mercato come qualsiasi altra multinazionale, ma una parte dei suoi dividendi, invece di arricchire un singolo erede, finanziano le attività caritative della diocesi sul territorio. La gran parte degli utili è reinvestita in azienda. Le acquisizioni le finanzia con la cassa. Ha protetto l’azienda, il lavoro e generato un flusso perenne di bene sociale. Ed attira anche grazie a ciò i talenti.

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