La qualificazione dei crediti gioca a nascondino con la vita delle persone (fisiche e giuridiche)
di Nereo Seppia
Il dottor Pietro Velluti era un dottore commercialista serio, uno di quelli che parlava poco, ma guardava e ascoltava molto. Aveva 53 anni, due bypass normativi e la ferma convinzione che il Fisco, se non capisce, dovrebbe almeno tacere e fermarsi a riflettere.
Il suo cliente, una PMI del Sud, aveva fatto un investimento notevole in una innovativa piattaforma tecnologica capace di ottimizzare il monitoraggio dei consumi energetici nei processi di refrigerazione. Una di quelle soluzioni che, almeno in teoria, il legislatore voleva incentivare con il credito d’imposta per il Mezzogiorno.
Solo che — come accade nei gialli mal scritti — l’incentivo si trasformò in sospetto. Un bel giorno arrivò un atto di recupero. Motivazione? Credito inesistente. Inesistente come se fosse stato inventato. Inesistente come il principio di collaborazione, correttezza e buona fede previsto dallo Statuto del contribuente. Nessun contraddittorio preventivo, perché una norma di interpretazione autentica ne ha escluso l’applicabilità ai crediti qualificati come inesistenti. Paradossalmente proprio quei crediti che maggiormente avrebbero necessità di una preventiva interlocuzione.
L’Ufficio dell’Agenzia delle entrate, durante il primo contraddittorio dell’accertamento con adesione richiesto dal contribuente, spiegò con compostezza: «Non siamo in grado di verificare la reale portata innovativa dell’investimento», aggiungendo (dopo una breve pausa), «Ma per noi non c’è innovazione sufficiente. Né novità. Né capacità di differenziare l’offerta». Alla fine del processo verbale veniva riportata l’intenzione del professionista di produrre delle memorie, allegando una specifica consulenza tecnica relativa al merito dell’investimento generativo del credito d’imposta recuperato, che l’Ufficio, a differenza di qualsiasi altra doglianza in punta di diritto, si dichiarava comunque pronto a valutare.
Le memorie furono consegnate, insieme all’elaborato tecnico di parte firmato da un perito informatico, corredato da una ricostruzione meticolosa dell’investimento effettuato, dal grado di innovazione comprovato dalla inesistenza di attività similari sul mercato da poter sottoporre a comparazione, a conferma ulteriore del requisito di novità. Nulla. L’Ufficio restò fermo. Ferocemente fermo. Con l’eleganza mortifera di chi dice: «Il credito è inesistente. Punto». Velluti, che per pudore indossa ancora il doppiopetto quando scrive memorie difensive, chiese: «Mi scusi… se non siete in grado tecnicamente di entrare nel merito degli investimenti effettuati, come potete concludere che non sussistono i requisiti? Non potete rivolgervi al MISE? Non ritenete che sia necessario farlo già prima dell’emanazione di un atto di recupero?». Risposta: un silenzio burocratico inerziale amministrativamente conforme.
Neppure una flebile apertura a valutare il credito, al più, come “non spettante”. Neppure la decenza di sollevare un ragionevole dubbio tecnico. Velluti, sconfortato e avvilito, uscì dall’Ufficio con le carte in mano e la sensazione di aver parlato a un algoritmo programmato solo per eseguire il comando da tastiera “Ctrl + C” da una vecchia e algida circolare. Nel tragitto per rientrare in studio pensò a ciò che davvero lo tormentava: la parola “inesistente” con tutto il carico di dolore innescato dai risvolti penali tratteggiati dalla specifica normativa. Superata una certa soglia, non sei più evasore. Diventi imputato. E a volte anche detenuto.
E tutto questo per un credito oggettivamente maturato, discusso da un Ufficio che ha dichiarato di non capirlo, ma che ugualmente lo contesta, che si sente titolato a farlo magari solo per scrupolo di gettito, perché le Circolari dicono così e perché anche le direttive interne dell’Amministrazione finanziaria dicono così. Ma sì, perché nel dubbio meglio comunque alzare l’asticella del recupero. Una follia.
Quella sera stessa Velluti si mise a scrivere il ricorso, con parole che tanto già sapeva sarebbero risultate indifferenti tanto all’Ufficio quanto ai giudici di ogni grado di giudizio: “È un paradosso giuridico e civile. Se l’Amministrazione non è in grado di valutare tecnicamente un investimento, allora il credito non può dirsi inesistente. Può essere dubbio. Può essere messo in discussione. Ma non criminale”. Mentre scriveva continuava a pensare alla necessità di un intervento urgente del legislatore. Non può accadere che l’ignoranza dell’Ufficio si trasformi in colpa del contribuente. Perché quando sbaglia lo Stato a pagare è anche l’impresa e con essa i suoi lavoratori. Dietro quella indolente e semplicistica approssimazione nella qualificazione dei crediti ci sono vite, persone, famiglie, un tessuto sociale che ne risponde e con esso anche la ricchezza del Paese.
Chiuso negativamente l’accertamento con adesione con affermazioni di circostanza, si è aperta la fase contenziosa. Nel frattempo, il cliente ha congelato gli investimenti. Un fornitore ha chiesto rientro anticipato. Un collaboratore è stato licenziato. Un sogno d’innovazione è diventato un incubo fiscale.
E intanto, nelle stanze dell’Agenzia delle entrate, un funzionario ha appena chiuso l’ennesimo fascicolo scrivendo con compostezza: “Credito inesistente. Si proceda all’atto di recupero in conformità alle direttive interne”.
Eppure, l’incertezza tecnica non è frode. E l’ignoranza dell’Amministrazione non può mai valere più della buona fede del contribuente. La politica, nel bene o nel male, è chiamata a dare risposte, ma spesso preferisce convocare tavoli tecnici dove le domande vengono sezionate, modificate, sterilizzate e poi magari accantonate in attesa di ulteriori approfondimenti.
Nel frattempo, fuori da quei tavoli, le persone continuano a pagare, a fallire, a finire sotto processo e spesso anche a morire.