La legge 185/90 italiana sugli armamenti necessita un respiro europeo
di Diego Zonta
Un’Italia diversa, un Paese che, a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, decide di fare i conti con un passato non di rado controverso nel commercio delle armi. Fino ad allora, il settore dell’import-export di armamenti era avvolto da una cortina fumogena, decisioni prese in stanze chiuse, controlli minimi e una scarsissima trasparenza. Era un’epoca in cui la fine della Guerra Fredda apriva nuove speranze di pace, ma allo stesso tempo cresceva la consapevolezza che le armi italiane potevano finire in contesti sbagliati, alimentando conflitti e violazioni dei diritti umani. In questo clima, maturò l’esigenza di una svolta radicale, di una legge che mettesse la parola fine a questo sistema poco trasparente e scarsamente controllato.
Nacque così, nel 1990, la Legge 185, un testo normativo che rappresentò una vera e propria rivoluzione copernicana. Non si trattava di una semplice modifica di regole esistenti, ma di una legge completamente nuova, pensata per imprimere una direzione etica e trasparente al commercio di armi italiano. Per la prima volta, si affermava con forza che l’export di armamenti non poteva essere considerato un affare come un altro, ma un’attività dalle profonde implicazioni politiche, sociali e umanitarie.
I pilastri della Legge 185 erano chiari: trasparenza, innanzitutto, attraverso l’obbligo di presentare al Parlamento una relazione annuale dettagliata sull’export di armi, rompendo così il muro di segretezza che aveva sempre avvolto il settore. E poi, controllo parlamentare, con un ruolo centrale affidato alle Camere nel monitoraggio e nella verifica delle autorizzazioni all’esportazione. Ma non solo: la legge introduceva criteri restrittivi per l’export, vietando la vendita di armi verso Paesi in conflitto armato, responsabili di gravi violazioni dei diritti umani o che potessero utilizzarle per azioni di repressione interna. Era un approccio innovativo, che poneva l’Italia all’avanguardia in Europa e nel mondo per quanto riguarda la legislazione sul commercio di armi.
Certo, la Legge 185 negli anni ha mostrato dei limiti. Non è riuscita a fermare completamente esportazioni di armi controverse (quali mine antiuomo e munizioni a grappolo) ma, nonostante ciò, nessuno può negare il suo ruolo fondamentale nel garantire un livello di trasparenza fino ad allora impensabile. Grazie alla Legge 185, il Parlamento e la società civile hanno potuto finalmente “guardare dentro” un mercato spesso definito opaco, analizzare dati, sollevare questioni, esercitare un controllo democratico. Questa trasparenza è indiscutibilmente un presidio importante, un argine contro decisioni potenzialmente pericolose o contrarie ai valori di pace e ai diritti umani.
Oggi si sta pensando, con apposito disegno di legge, di rivedere la legge 185: dopo parecchi mesi di stop, l’iter di modifica è recentemente ripreso. Da quanto emerge, le modifiche alla Legge 185 ipotizzate punterebbero ad alleggerire il vincolo all’export di alcune tipologie di armamenti ed allentare gli obblighi di trasparenza contenuti nella Relazione governativa annuale. Dal punto di vista del Governo, la necessità di rivedere la Legge 185 è da ricondursi principalmente al miglioramento della sicurezza nazionale e a non svantaggiare l’industria della difesa tricolore nei confronti di quella di altri Paesi.
L’Unione Europea ha adottato la “Posizione Comune 2008/944/PESC”, che stabilisce i criteri comuni che gli Stati membri devono applicare quando decidono se concedere o negare una licenza di esportazione di armi. Tuttavia, i Paesi europei interpretano i criteri UE in modo diverso. Alcuni adottano un’interpretazione più restrittiva, ponendo maggiore enfasi sui diritti umani e sulla stabilità locale, mentre altri seguono un approccio più permissivo, bilanciando questi aspetti con considerazioni economiche e di politica estera. Un film già visto in molti altri ambiti, che non aiuta certo coesione e strategia comune, senza dimenticare una guerra che da tre anni lambisce i confini UE e che ha riacceso la discussione e la spinta NATO sul raggiungimento del 2 per cento sul PIL di investimenti che ogni Paese aderente dovrebbe compiere nel comparto difesa.
In termini di trasparenza, Germania, Paesi Bassi e Svezia tendono ad avere sistemi di reporting più dettagliati e accessibili al pubblico, spesso includendo dati disaggregati per tipo di arma, Paese di destinazione e valore economico. Ad esempio, la Germania pubblica un rapporto annuale dettagliato e le decisioni di licenza sono soggette a scrutinio parlamentare. La Francia e il Regno Unito, pur pubblicando rapporti, forniscono spesso meno dettagli e informazioni meno accessibili. La Francia, in particolare, tradizionalmente adotta un approccio più riservato, sottolineando la necessità di proteggere gli interessi strategici e industriali nazionali, mentre il Regno Unito ha visto una certa riduzione della trasparenza negli ultimi anni.
Concludendo, quindi, andrebbe forse superata la facile contrapposizione “pacifisti” contro “guerrafondai” a livello locale, che non produce alla fine risultati tangibili, ma occorrerebbe lavorare a livello europeo, dove tematiche inerenti agli armamenti necessiterebbero, almeno quelle, di un vero approccio federale che metta a fattor comune strategie di import-export, investimenti, modalità di finanziamento e non da ultimo trasparenza nella modalità di comunicazione alla popolazione. Utopia?