La grazia di dire grazie. Negli studi (e non solo) aumenta il fatturato
di Massimo Pezzini
Forse sto per scrivere l’articolo più scomodo dell’anno. Ma non importa, perché questo giro è dedicato solo a sognatori e temerari che hanno il coraggio di guardare in faccia alla realtà, e che dopo avere allacciato le cinture vogliono fare insieme questo piccolo viaggio. Sì, perché stavolta parliamo di roba forte, fortissima, visti i tempi. E so già che ci sarà chi dirà che la gentilezza non serve, chi giurerà di praticarla ogni giorno, chi penserà che basti “riconoscerla”. Partiamo dal fatto che c’è una cosa che, più di ogni innovazione tecnologica, continua a sorprendermi: la gentilezza è sparita dai radar. È diventata come un segnale debole, un Wi-Fi lontano: o alzi l’antenna, o non arriva più niente. E non riesco a capire quando sia successo. Forse mentre tutti eravamo distratti a parlare di AI, di prompt, di dati che corrono più veloci dei nostri pensieri, la gentilezza semplicemente… ha smesso di essere “di moda”.
Eppure, basterebbe fermarsi un secondo per accorgersi che un “grazie” vero, non quello appiccicato automaticamente nelle mail, non quello infilato per cortesia, è quasi un atto rivoluzionario.
La gentilezza non è sparita del tutto, eh. Ogni tanto la vedi passare, un po’ come la volpe all’alba: elegante, rapida, timida. E subito, come ti avvicini, scappa.
Allora ho iniziato a pensarci davvero. Perché la gentilezza, o ancora prima, una parola facile come “grazie”, che dovrebbe essere la più semplice del vocabolario, sembra diventata quasi un vezzo vintage o una moneta fuori corso? Perché nelle nostre giornate professionali ci viene naturale dire “ti ho inoltrato”, “ti ho messo in cc”, “urgentissimo”, “hai visto la mail?”, ma non ci viene altrettanto naturale dire “grazie”?
La scintilla me l’ha accesa un amico che parlando proprio di questo se ne esce con: “secondo me la grazia ha a che fare con il saper dire grazie.” Non so perché, ma quella frase mi è rimasta appiccicata addosso. È da lì che ho cominciato a osservare i gesti con più attenzione, cambiando lente, con la riflessione che la grazia non sia buonismo, o cortesia da manuale, non è la forma gentile con cui chiudi una mail che in realtà vorresti concludere con “fammi sapere. E sbrigati.”
La grazia è una postura.
È un modo di stare al mondo senza fare rumore, ma lasciando un segno con la consapevolezza di riconoscere che in fondo, nulla è dovuto, nemmeno ciò che ormai diamo così per scontato da non vederlo più.
“Ma sì ma poi basta poco”. Eh, no. Proprio no. Se c’è un’altra verità un po’ scomoda e che va in controtendenza rispetto a come la si potrebbe pensare, è che essere gentili non è affatto facile. È una disciplina, una specie di tai chi emotivo.
In un mondo che corre e misura tutto e schiaccia sempre più sull’acceleratore, la grazia intesa come la bellezza dei gesti e delle parole è proprio l’opposto: è lenta, è intenzionale, ti costringe a fermarti un attimo. Dire “grazie” senza automatismi richiede presenza, ascolto, riconoscimento. È quasi un artigianato emotivo: se lo fai in fretta o in modo freddo, si sente ed è come mettere nel freezer anche chi quel grazie lo riceve. Invece se lo fai bene, dura anni e scalda come un focolare. Ancora di più se quel grazie è per qualcosa di peso, qualcosa che ha svoltato la giornata.
Ti è mai capitato di uscire da un posto e pensare: “che forte, era troppo gentile quella ragazza”?
Non perché ti abbia fatto un favore enorme, ma perché quel gesto, piccolo, preciso, quasi chirurgico e gratuito, aveva dentro un’attenzione che non ti aspettavi più. Ecco, quella gentilezza non è cortesia, è qualità, umana.
A me, quando succede, fa un effetto strano: mi prende allo stomaco e mi sale alla testa come quando stappi lo spumante. Mi fa pensare che qualcuno ha fatto quella cosa, ha scelto il modo ed è arrivato, senza dire nulla, contagiandomi e facendomi venir voglia di restituire la stessa cura, lo stesso peso specifico, mettendomi in moto. Un motore silenzioso, quasi elettrico (perché in fondo “elettrizza” anche) che spinge avanti chi la riceve e, a cascata, chi la incontrerà dopo.
Così, nel mio slalom di interrogativi sul “quindi perché se ne è andata?”, ho pensato che forse, abbiamo smesso di praticare gentilezza a casaccio perché è scomodo. Anche solo dire grazie non è facile: significa ammettere che abbiamo avuto bisogno. E ai tempi “dei nostri vecchi” l’avere bisogno era più diffuso, spesso quasi una condizione naturale, invece, non sapevano di avere molto più di noi.
Oggi siamo inebriati di apparenze, sospesi a mezz’aria tra quell’apparente “avere tutto” e gancio che ti fa incassare la botta della realtà, a ricordarti che molto di ciò che chiami “tutto” o “tuo” è spesso preso in abbonamento o a rate. E questa cosa, mi apre un flashback che mi fa fare un salto all’università e al concetto di utilità marginale. Il mio prof di microeconomia, un tipo stravagante, che parlava come se avesse sempre un gessetto in mano anche quando era al bar, ce la spiegò così: “Immaginate un bicchiere d’acqua quando avete una sete da deserto. Il primo è un miracolo, vi salva. Il secondo è ancora buono, vi piace. Dal terzo in poi, l’effetto comincia a scendere. Il quarto non lo volete nemmeno.”
Il valore diminuisce man mano che ne hai di più. Quello che ti serviva davvero era solo il primo bicchiere. Oggi invece viviamo circondati da terzi, quarti, quinti bicchieri che non dissetano più nessuno, ma che continuiamo a prendere perché brillano bene nelle foto o perché sembra che tutti gli altri li abbiano già bevuti. E forse è proprio anche per questo che la gentilezza spiazza andando controcorrente. Perché è una delle poche cose al mondo che funziona al contrario e non perde valore più ne ricevi, non satura.
Anzi: più la dai, più cresce; più la ricevi, più ne vuoi ancora. La gentilezza non ha utilità marginale decrescente ma esponenziale perché moltiplica fiducia, riduce attriti.
Ok tutto bene fin qui, ma allora qual è la controindicazione che troviamo sul bugiardino della gentilezza? Semplice. Che il timore è che ti faccia sentire come fossi in debito ma è un errore enorme. Si, perché dimentichiamo che la gentilezza non è mai una partita doppia di dare e avere, dove se dai devi ricevere o se ti arriva qualcosa allora devi sentirti in obbligo di contraccambiare.
Ma noi professionisti siamo cresciuti come piccoli samurai del “faccio io che faccio prima”, abituati a pensare che la firma è nostra, la responsabilità è nostra, l’errore è nostro. Se ringrazi qualcuno sembra quasi di scoprire il fianco. Ma è un paradosso, perché più scopri il fianco, più diventi credibile. E soprattutto diventi memorabile: nell’oceano di identici, la gentilezza è così rara che sfavilla.
E allora penso a tutte le situazioni minuscole in cui un grazie avrebbe un valore enorme: il cliente che ti porta i documenti in ritardo pur mettendocela tutta perché ha avuto un problema, il collaboratore che ti copre in un momento in cui tu sei con l’acqua alla gola, la persona dello studio che ti “spegne un incendio” prima che tu te ne accorga, il fornitore che ti evita una figuraccia, il praticante che prova a fare del suo meglio anche se sbaglia. Tutte cose “normali”, no? No, proprio no. Normali non lo sono affatto. Perché ogni gesto è tempo rubato al caos, e in questo tempo in cui il tempo sembra aver troppo o nessun valore, credo ancora che tanto o poco, quell’attenzione che qualcuno ti concede valga più dell’oro.
E poi c’è un’altra cosa che possiamo anche far finta di non vedere ma è reale, perché sembra troppo incredibile per essere vera, quasi imbarazzante da dire ad alta voce: la gentilezza fa aumentare il fatturato.
Non perché d’un tratto ci siamo svegliati tutti buoni come i protagonisti degli spot natalizi. Funziona per un motivo molto più terreno: la gentilezza è un acceleratore di fiducia. E negli studi professionali la fiducia pesa più dei bilanci, più dei software, più delle normative che cambiano ogni tre giorni. Funziona sul cervello, sui processi, sulle relazioni, come se avesse il potere di togliere un po’ di attrito da ogni ingranaggio. Un cliente che si sente visto davvero, uno che percepisce che non è solo un codice fiscale vivente, non molla il suo professionista per 200 euro in meno da un’altra parte. Quella cura la coglie ed è disposto a pagarla. E un collaboratore trattato con rispetto, che sente che la sua voce non finisce in un cestino invisibile, non scappa alla prima offerta su LinkedIn. Un collega che si sente riconosciuto, anche solo in una piccola cosa, ti restituisce il doppio, senza che tu glielo debba chiedere.
Tutto questo, messo insieme, diventa qualcosa di molto concreto: continuità, stabilità, margini.
Per questo la gentilezza, praticata in modo sincero, non è buonismo, è una strategia operativa quasi fosse l’algoritmo umano più sottovalutato della storia della gestione degli studi: riduce i conflitti, accorcia i tempi, migliora la qualità di quello che ti torna indietro, rende tutti coinvolti nel raggiungimento del risultato finale. E quando le informazioni scorrono meglio, tutto costa meno e tutto vale di più.
Io ho questa convinzione, maturata a forza di parlare con studi che arrancano e con altri che volano, che molte crisi che oggi attribuiamo a mille cause diverse (turnover, clienti ingestibili, contenziosi evitabili, progetti piantati nel fango) siano, in realtà, anche mancanza dell’ingrediente gentilezza nella dispensa che servirebbe per completare quella ricetta, prima ancora che crisi di competenze.
E così, ho anche capito che la gentilezza è una potentissima forma di leadership. Non quella dell’autorità, ma quella dell’esempio, che diventa come un collante invisibile: tra team, tra generazioni, tra professionisti. E non c’è AI o algoritmo che tenga: certe cose, per arrivare, le fa solo l’umano perché, quando le fanno le macchine arrivano asciutte, un po’ cartonate, come quei messaggi automatici alla “Gentile cliente” che non hanno mai guardato negli occhi un cliente vero in vita loro.
Forse la verità è semplice: la grazia non è un lusso per persone gentili, è anche un vantaggio competitivo che purtroppo nei cv non c’è mai, perché è talmente leggera che è difficile quantificare, eppure è un elemento che crea unicità. Un modo di ricordarci che si può essere efficienti senza smettere di essere umani. E tutto, parte da una parola che è sempre in super saldo perché non costa niente, ma vale tutto.
Grazie. Anzi, grazie con grazia.

