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Tecnologia

La grande defezione – quando abbandonare i social diventa l’unico gesto politico che ci resta

di Gianluca Iannetti

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Blast
nov 22, 2025
∙ A pagamento

Un mese fa ho cancellato Instagram e Facebook dal mio telefono.

Non per una rivelazione filosofica. Non dopo avere letto Zuboff o saggi sul capitalismo della sorveglianza. Nemmeno per un improvviso slancio di minimalismo digitale.

È successo per una ragione più semplice e più brutale: mi sono accorto che stavo buttando via la mia vita.

Passavo ore a scorrere video di auto che tamponano altre auto, gol sbagliati, cantanti che non ascolto, contenuti generati dall’intelligenza artificiale e ottimizzati per tenermi lì dentro. E funzionavano. Funzionavano benissimo.

Nel frattempo, Ludo e Giacomo – i miei figli, 9 e 6 anni – volevano giocare ai Lego. Elsa voleva parlare. Gli amici del Circolino mi aspettavano per una birra e due chiacchiere sull’Inter o su Trump. Avevo libri da leggere, film da vedere, una vita da vivere.

Ma il telefono era più forte.
Lo sblocco automatico.
Il pollice che scrolla.
Il cervello in stand-by.

Il Facebook che amavo non c’è più

Non era più il Facebook del 2008 — quello in cui cercavi gli amici del liceo, i parenti emigrati, le ex fidanzate per vedere se erano diventate Miss Italia o Miss Padania. Quello dei gruppi improbabili (”Interisti leninisti”, “Sagra della Pro Loco”), delle foto del Valley Festival che aspettavi come si aspettava un album.

Quel Facebook era un posto che aveva senso. Uno spazio dove ritrovare pezzi di vita vera, connessioni reali, memorie condivise.

Oggi invece è solo un flusso infinito, progettato per massimizzare il tempo che trascorri incollato allo schermo. L’algoritmo ha divorato la piazza. La socialità è diventata intrattenimento passivo.

La piazza è sparita.
È rimasto solo il palinsesto.

E io ero diventato un utente. Un numero. Un occhio che guarda, un pollice che scrolla, un cervello che produce dati.

Così ho fatto la cosa più semplice del mondo: ho tenuto premuto sull’app per tre secondi, ha iniziato a traballare, e ho premuto “elimina”.

Le foto del 2012, i post del 2009, i commenti del 2015 sono ancora lì, in un cloud che non mi appartiene. Ma io non ci sono più.

Ho deciso che voglio vivere la mia vita, non documentarla. Che voglio guardare un concerto, non filmarlo. Che voglio vedere i miei figli costruire un castello, non fare una story sul castello.

Il primo effetto: la vita torna a respirare

Sono passate quattro settimane.
Non ho avuto illuminazioni mistiche. Nessuna pace zen.

Solo piccoli cambiamenti reali: leggo di più, parlo di più con Elsa, gioco di più con i bambini, dormo meglio, sono meno nervoso, sono meno intrappolato nell’ansia da notifica.

Poi è arrivata l’altra scoperta — quella che non volevo vedere.

Vivevo in una bolla. E ci vivevi anche tu.

Una bolla perfetta. Cucita su misura.

Nel mio mondo digitale non esistevano milanisti (con sollievo). Tutti ascoltavano la mia musica. Tutti bevevano Franciacorta. Tutti vestivano Barbour e Vans. L’algoritmo costruiva intorno a me una realtà aderente ai miei gusti, alle mie preferenze, alle mie convinzioni.

Non un mondo. Una clonazione del mio mondo.

Non era solo una filter bubble politica. Era una filter bubble esistenziale. Una realtà parallela dove io ero normale, io avevo ragione, io ero al centro, tutti erano come me.

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