Quando Jacopo Piazzolla si laureò in economia e commercio con una tesi in diritto tributario, sentiva di aver scelto il campo di battaglia perfetto per la sua carriera. Le riforme fiscali che si succedevano senza sosta, le promesse di semplificazione mai mantenute, le intricate maglie della burocrazia gli sembravano il terreno ideale per dimostrare il proprio valore. Come Giovanni Drogo, il protagonista de Il deserto dei Tartari, anche Jacopo si preparava a un grande evento che avrebbe dato un senso alla sua dedizione: la grande riforma del sistema tributario italiano, quella che avrebbe reso giustizia ai contribuenti, quella che avrebbe davvero fatto la differenza.
Appena superato l’esame di abilitazione, entrò a lavorare in uno studio specializzato in contenzioso tributario. Lì si trovò subito immerso in un labirinto di norme, decreti, sentenze contraddittorie. L’attesa cominciò: ogni nuovo Governo annunciava riforme epocali, e lui si preparava, studiava, elaborava strategie, dovendo ogni volta sbrogliare l’intricata matassa composta dai fili dei decreti attuativi, della prassi amministrativa e della giurisprudenza. Ogni volta, però, il risultato era il medesimo: modifiche parziali, rattoppi confusi, nuovi adempimenti che si sommavano ai precedenti, senza mai eliminarli. Le promesse di semplificazione svanivano, come miraggi nel deserto, e il fisco restava quel monolite immobile e inafferrabile che già generazioni di giuristi avevano cercato di decifrare.
Passavano gli anni e Jacopo, come Drogo nella Fortezza Bastiani, si accorse che la vera guerra non sarebbe mai arrivata. Ogni volta che sembrava profilarsi una svolta, si rivelava un’illusione: una nuova commissione parlamentare, una nuova commissione di esperti, un altro libro bianco, un ennesimo tentativo di riforma che si perdeva nel fitto labirinto di articolati spesso in contraddizione tra loro, nonché indecifrabili rispetto all’inquadramento generale cui presiede ogni ordinamento tributario. Il giovane professionista iniziò a domandarsi se fosse lui a sbagliare, se il problema fosse la sua ostinazione nel cercare un senso in un sistema che sembrava costruito per non avere un senso e per rimanere incomprensibile.
Gli anni passavano, e il fervore dei primi tempi si affievoliva. Il lavoro diventò routine, le battaglie innanzi ai giudici di merito non erano più eroiche difese del contribuente, ma sbiadite e noiose presenze in un contesto dove merito e diritto non sempre ricevevano la giusta valorizzazione. I colleghi più anziani lo guardavano con un sorriso amaro quando parlava ancora di riforme. “Jacopo, smetti di aspettare i Tartari” gli disse un giorno un socio dello studio, un uomo ormai vicino alla pensione, “Non arriveranno mai. Questo deserto è tutto quello che abbiamo”.
Fu in quel momento che Jacopo comprese, forse per la prima volta dopo tanto tempo, che il diritto tributario italiano non era una fortezza da difendere, ma era esso stesso il deserto, vasto, imperscrutabile, eterno nella sua disfunzione. E comprese che, in verità, gli invasori si erano alternati nel tempo travestiti da barbari riformatori. E lui, come Drogo, aveva dedicato la vita ad aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato.
Un giorno, dopo venticinque anni di professione, Jacopo chiuse i libri e guardò fuori dalla finestra del suo studio. Il cielo era terso, senza nuvole. Il deserto fiscale italiano era ancora lì, immutabile. Sospirò, prese il cappotto e uscì, senza sapere se sarebbe tornato.