La disparità di trattamento tra dipendenti familiari e non familiari nuoce all’azienda
di Claudio Garau
Condotto su un campione di più di 800 lavoratori in 168 piccole e medie imprese familiari italiane, un recente studio dall'Università di Bologna - pubblicato sul Journal of Family Business Management - ci ricorda che in tali imprese, le cui attività contribuiscono ad alimentare la vastissima rete delle PMI - e soprattutto il PIL del nostro Paese - non sempre troviamo un terreno fertile per la crescita del profitto.
E questo per cause che prescindono dalle effettive abilità del singolo o dalle capacità di lavoro di squadra, particolarmente importante nelle realtà imprenditoriali di ristrette dimensioni, dove la coesione e l’affiatamento dei pochi sono ingredienti della ricetta vincente.
Nepotismi e favoritismi “di sangue” sono dinamiche disfunzionali in azienda, che premierebbero con posizioni gestionali e di responsabilità (e talvolta senza averne le effettive qualifiche) soltanto alcuni a discapito di altri pur meritevoli, non contribuendo affatto alla compattezza dell'azienda, ma anzi – nel medio-lungo termine – portando a conseguenze negative sia in termini di stabilità aziendale e profitto, che in termini di soddisfazione personale dei dipendenti non familiari. Questi ultimi sarebbero così inclini a cercare fortuna altrove, cambiando lavoro e alimentando il turnover.
Usando specifici indicatori e rappresentazioni grafiche che misurano buona organizzazione dell'impresa e soddisfazione dei dipendenti, l'autore del citato studio dal titolo “All employees are equal… but some are more equal than others.’ Role identity and nonfamily member discrimination in family SMEs”, rimarca che distinti approcci teorici adottati fino ad oggi – ossia agency theory e SEW (Socioemotional Wealth Theory) - hanno dimostrato che le imprese familiari adottano, in larga misura, sleali pratiche di nepotismo e favoritismo all'interno di un gruppo, determinando una diffusa percezione di discriminazione sul lavoro da parte dei dipendenti non membri della famiglia proprietaria.
Ecco perché una delle principali sfide che le aziende familiari devono affrontare è garantire l'equità e l’uguaglianza tra i dipendenti familiari e non familiari sul posto di lavoro. Anzi, la fonte primaria dell'ingiustizia organizzativa – tale da minare il maggior profitto - sembra essere la sovrapposizione tra famiglia e impresa, mentre studi di management strategico usano la terminologia “bifurcation bias” per descrivere il trattamento asimmetrico dei membri della famiglia e dei non familiari nell'impresa.
Si citano casi in cui i dipendenti familiari ricevono – senza un reale merito - migliori valutazioni delle prestazioni, oppure intascano stipendi sovraricompensati (e con premi per le stock option negati agli altri dipendenti) o, ancora, hanno a disposizione migliori opportunità di carriera e formazione, rispetto ai loro colleghi non familiari. Lo studio dimostra, inoltre, che da parte dei dipendenti non familiari c'è una diffusa convinzione di fondo, secondo cui i membri della famiglia ricoprono posizioni organizzative per le quali non possiedono caratteristiche adeguate in base alla competenza o all'esperienza.
Un'impresa familiare “virtuosa” (o che voglia definirsi tale) dovrebbe, invece, adottare una governance formale e strutturata nonché politiche HR inclusive (anche tramite job rotation), mettendo in primo piano abilità e meriti del singolo, sia esso un familiare o meno. Deve rilevare – spiega lo studio - il “ruolo professionale”, e la correlata performance, non la “categoria” a cui si appartiene, affinché il dipendente non familiare possa percepire il dipendente familiare non come controparte o antagonista, ma come collega tendente a un comune obiettivo.
D'altro lato, nell'analisi condotta dall'Università di Bologna, si segnala anche che la letteratura in materia mostra che la disparità tra dipendenti familiari e non familiari, sebbene sia certamente presente, non indica necessariamente un'ingiustizia, poiché i dipendenti familiari e non familiari hanno diversi insiemi di conoscenze, abilità, capacità e fonti di motivazione. Al contempo, però, è concreto il rischio di cadere nel paradosso per cui, perseguendo l'obiettivo di conservare gelosamente la continuità aziendale in famiglia, si generano distorsioni e un senso di discriminazione minanti la stessa continuità dell'attività.
Ricapitolando, lo studio ha analizzato le condizioni di impiego di centinaia di dipendenti di 186 piccole e medie imprese familiari del nostro Paese, giungendo alla conclusione per cui la quotidiana presenza di dinamiche disfunzionali e comportamenti discriminatori (non sempre volontari ma anzi frequentemente in “buona fede”) non contribuisce alla serenità in azienda e – anzi - determina effetti rilevanti, oggettivi, negativi e misurabili da distinti indicatori di benessere aziendale e produttività.
Soprattutto è la percezione dell'esistenza di “corsie preferenziali”, da parte dei dipendenti esclusi, a ridurre in modo consistente l'impegno organizzativo, accrescendo il rischio di dimissioni e di calo della performance.
Al di là degli aspetti etici, e pur trattandosi di “zone grigie” che attengono alla discrezionalità di scelta nei rapporti di lavoro in ambito privato, sul piano giuridico occorre ricordare che i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore devono – o dovrebbero – essere sempre improntati ai principi di buona fede e correttezza (articoli 1175 e 1375 cc).
Di analoga impostazione è il Dlgs 215/2003 che, in attuazione della direttiva 2000/43/CE, all'articolo 3 indica l'applicazione di un principio di parità di trattamento applicabile a tutte le persone, sia nel settore pubblico che privato – con specifico riferimento agli avanzamenti di carriera e alla retribuzione – e peraltro suscettibile di tutela giurisdizionale. Ma già ben prima, nel 1970, l'articolo 15 dello Statuto dei Lavoratori parlava esplicitamente di divieto di “atti discriminatori” in ufficio, per non ledere i diritti dei dipendenti.
La ricetta vincente ha comunque come ingredienti trasparenza e eguaglianza tra persone, sulla scorta dei ruoli e a parità di competenze. Il citato studio suggerisce - quindi - che le PMI familiari dovrebbero optare per regolamenti aziendali che fissino assunzioni, promozioni e retribuzioni uguali per tutti, contratti e valutazioni standardizzate, formazione di tutto il personale, rotazione dei ruoli e percorsi di carriera meritocratici. Al contempo, anche l'oggettiva valutazione delle performance, basata su KPI misurabili (con eventuali bonus che prescindano dal legame familiare), insieme all'uso di software di HR Analytics per monitorare obiettivi e risultati senza favoritismi, contribuirebbero a creare un ambiente di lavoro più sano, equo e produttivo.
La domanda che ogni imprenditore di un'azienda familiare dovrebbe porsi è: quanto costa davvero il favoritismo? Non solo in termini economici, ma anche in termini di reputazione, attrattività per i talenti esterni e stabilità nel lungo periodo. L’idea che il successo di un’impresa familiare dipenda dalla mera trasmissione generazionale e dalla fiducia in chi “porta il cognome giusto” è sempre meno sostenibile in un mercato competitivo e in un contesto lavorativo in cui merito, competenze e trasparenza sono ormai imprescindibili.
Se le PMI familiari vogliono sopravvivere ed evolversi, devono liberarsi da una visione anacronistica e autoreferenziale e adottare un approccio manageriale moderno, basato su criteri di efficienza e pari opportunità. Altrimenti, il rischio è che l’azienda non sia più percepita come un luogo di crescita e innovazione, ma come un feudo chiuso e stagnante, destinato prima o poi a perdere i suoi migliori talenti e, con essi, il proprio futuro.